A complemento del post precedente relativo all'aria "Dai campi, dai prati", dal Mefistofele di Arrigo Boito, farò adesso una analisi del brano dal punto di vista musicale-fenomenologico.
L'aria si presenta come un "larghetto" in 3/4 in Fa maggiore. L'attacco da parte del tenore (Faust) è preceduto solo da cinque "rintocchi" della nota Do. In alcune esecuzioni sentiamo, correttamente, un lieve diminuendo prima dell'ingresso della voce, mentre altre battono inesorabilmente quanto inutilmente. L'attacco della prima frase "Dai campi, dai prati" è contraddistinta da un'annotazione dell'autore: "meditabondo", che suggerisce un'esecuzione piuttosto riflessiva e introversa. Sotto la frase abbiamo l'indicazione "piano", che per un Fa acuto non è proprio semplicissimo. La maggior parte dei cantanti parte piuttosto forte, anche considerando che la prima vocale, la "a", non si presta molto alle smorzature. In ogni modo diversi tenori lo fanno, e bene, Gigli sopra a tutti. La scrittura musicale ci suggerisce che la seconda semifrase, "dai prati", è un'imitazione sull'armonia di dominante, quindi va più piano, pertanto può essere giustificabile un attacco iniziale su un meno piano per poter dar risalto a questa diminuzione, ancor più se consideriamo che la terza semifrase, che completa il primo periodo, "che inonda la notte", è da eseguirsi ancora più piano, essendo anche scritta piuttosto in basso, con un piccolo crescendo su "inònda". Sono del parere che, anche se divise da una pausa di croma, le prime due semifrasi vanno eseguite senza presa di fiato. Si dirà che essendoci una pausa (e una virgola) la cosa è irrilevante, ma si conserva quella tensione che lega più opportunamente il periodo. Anche la frase successiva è di esecuzione piuttosto complessa, e per questo motivo credo che ben pochi ne abbiano lasciato una esecuzione davvero memorabile. Inizia riprendendo l'ultima semifrase e poi prosegue "che inonda la notte, dai queti sentier". Una piccola scala ascendente, che deve iniziare davvero molto piano, interrotta da continue brevi pause, che contraddistinguono il pensiero errante del protagonista. Anche qui occorre attenzione a che le pause non interrompano il fluire musicale, mantenendo la giusta tensione che ha un apice sul Mi di "quéti". Boito segna in alcuni punti delle forcelle di diminuendo per evitare che il cantante appoggi, accenti, le sillabe deboli, i finali di parola, il che purtroppo avviene egualmente in molti casi. La frase successiva riparte dal Fa acuto "ritorno"; non ci sono indicazioni ma può starci anche un certo aumento di intensità. Nello spartito non è segnato niente sotto la parte del canto, ma nell'accompagnamento di "e di pace" è segnato un pianissimo, che a mio avviso dovrebbe riguardare anche la semifrase, che è comunque con armonia di re minore, rispetto al Fa maggiore della prima. Proseguendo, c'è la frase "di calma profonda", che è scritta a duine (ma con una legatura complessiva), che proprio per le parole scritte dovrebbe essere cantata con molta tranquillità e fraseggiando con cura e attenzione, e invece molti corrono, affrettano! A questo punto, e non prima, Boito segna "affrettando" e poi "rinforzando, legatissimo e crescendo per la frase "son pieno, di", mentre si torna a tempo e in diminuendo su "sacro mister" (primo "finto" punto massimo). A questo punto inizia la parte B dell'aria. Con l'indicazione "piano" e "dolce": "le torve passioni del core". Parecchi vogliono dare a questa frase un colorito e un carattere... torvo, ma in realtà Boito segna dolce perché il completamento della frase ci avverte: "s'assonnano in placido oblio". Quindi certe esecuzioni declamatorie non hanno ragione di essere. Quasi tutti dividono la frase: "le do/lcipassiò/nidelco" ma è un errore; la legatura segna tutta la frase, quindi occorre non soffermarsi e con troppa enfasi sulla O di "passiòni". "S'assonnano in placido oblio" è quasi una ripetizione musicale, ma mentre la prima è in Re minore (le torve passioni), la seconda è in Maggiore (s'assonnano). Ci vuol poco a comprendere che la seconda va "a più", quindi sarà un po' più forte, il che viene anche istintivo. Anche qui occorre attenzione a non dividere la semifrase, che Boito segna sotto un'unica legatura. A questo punto, con un bel crescendo armonico e melodico abbiamo tre vere declamazioni: "mi ferve soltanto" sulla nota Re [Re minore]; "l'amore dell'uomo" ancora sul Re [Si bemolle maggiore, sottodominante della tonalità d'impianto], "l'amore di Dio" sulla nota Fa [accordo di nona, ovvero diminuita, sulla sensibile senza la fondamentale, Mi], che è il punto massimo, maggior contrasto, e confermato dall'alto valore del testo (l'amore di Dio). Immediatamente si torna al Fa maggiore e solo 2/4 di battuta di "riposo", che però Boito indica ancora in crescendo fino alla ripresa vera e propria, che vuole "smorzando subito". Dopo la ripetizione calligrafica "dai campi, dai prati", c'è un cambiamento del testo e della musica: "ritorno e verso l'Evangel", tutto scritto tra re e fa, quindi in una zona un po' sensibile; la frase non è legata, quindi può prestarsi a una certa enfatizzazione, ma non è giustificata l'accelerazione che invece diversi compiono. A questo punto nasce il problema musicale più evidente. Il brano va a finire, la tensione a spegnersi, ma Boito bisogna dire che fa un errore, perché torna a dare tensione e porta anche la tessitura a crescere fino al Si bemolle, che andrebbe un po' smorzato, ma che comunque giunge al termine di un "crescendo", quindi si ha la sensazione di un falso (falsissimo) punto massimo, non giustificabile musicalmente, essendo la conclusione del brano, e men che meno dal testo, giacché sarebbe poco comprensbile l'enfasi su "m'accingo a meditar". C'è un altro problemino che andrebbe affrontato. La semifrase "mi sento attratto" viene di solito attaccato alla frase successiva, "m'accingo a meditar", mentre è la conclusione di "e verso l'Evangel", creando incomprensione del testo. Per la verità bisogna dire che il testo (come già anche alcuni pucciani) mal si presta a essere ben compreso, se pensiamo che l'inizio, "dai campi, dai prati" trova risoluzione solo dopo alcuni versi, "ritorno", mentre nella ripresa lo dice subito, però le costruzioni sintattiche se possono avere più facilmente comprensione in un testo scritto o da recitare, e pur essendo l'autore anche il compositore, spesso restano un po' ostiche (ne fa buon esempio la "gelida manina", che in alcuni punti è al limite dell'incompresione). A parte la "svista" del finale, che poi chissà che origine avrà avuto, perché ho il sospetto che Boito questo acuto non lo volesse, l'aria è veramente bella (anche se non arriva al livello della successiva "giunto sul passo estremo"), breve, ma proprio per questa molto densa di significati che la parola deve poter diffondere grazie alla bella scrittura. Boito faceva parte della "scapigliatura", dunque di quel movimento letterario che in qualche modo si aggancia al naturalismo e quindi al verismo, o giovane scuola, ma sostengo che in queste arie, se non nell'intera opera, di verismo come è comunemente noto non c'è niente, dunque sono da considerarsi fuori luogo singulti, accentacci, piagnistei e declamazioni enfatiche. L'aria va eseguita con semplicità, eleganza, dizione e sobrietà. A mio avviso, tolto il punto massimo, dove si può arrivare a un pieno forte, ma non di più, il cantante dovrebbe avere il coraggio di trattenere il crescendo finale per fare un acuto non troppo forte, non lungo, senza corona (che del resto non c'è) e subito smorzato.
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