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sabato, agosto 08, 2015

Cosa giustifica...?

Si va al concerto o all'opera... perché? Perché si studia musica, uno strumento, o canto? In genere non lo si sa, e si evita anche di chiederselo con determinazione; è una domanda imbarazzante. Al limite si danno risposte generiche, evasive: mi piace, sono appassionato, mi emoziona, ne sento la necessità, mi rilassa... E va beh, tutto sommato darsi una risposta in fondo si pensa che non ci cambi molto la vita. Si sente questa necessità e lo si fa, con maggiore o minore determinazione. Il problema di fondo però non è affatto risolto, anzi...! Una volta in sala da concerto o teatro... cosa ascoltiamo? Si dirà: la musica! Cioè? un sontuoso ed elegante gruppo di persone che soffia, gratta, batte... strumenti. Piccolo paragone: quando si va a teatro e si va a vedere una commedia, piéce, tragedia o altro... cosa si va a vedere/ascoltare? un testo, offerto in una lingua conosciuta di una storia con un principio e una fine coerenti (lasciamo stare il teatro contemporaneo, magari, per ora). Anche il balletto classico, ci mostra eleganti figurazioni corporee che ci mostrano una storia. Anche qui, però, talvolta la danza è astratta, cioè si basa su una musica non programmata per descrivere. E allora si parla di LINGUAGGIO. I ballerini danzano utilizzando un linguaggio codificato di passi che molti conoscono, e il ballerino bravo è quello che riesce a svolgerli con la massima naturalezza e talvolta acrobazia. Però... restano per lo più momenti isolati. Sapremmo cosa giustifica uno spettacolo di danza nel suo insieme? Ma veniamo a noi: andiamo a sentire, mettiamo, una sinfonia di Beethoven. Qualcuno parla anche qui di "linguaggio". Intanto dovremmo capire qual è questo linguaggio: perché c'è, come si è originato e come potremmo riconoscerlo. E qui intervengono i "musicisti" che ne fanno una ragione di casta. Siccome loro studiano, loro sanno, conoscono, mentre il pubblico non sa, è ignorante. Dunque? Ci si può chiedere ragionevolmente, a questo punto, quelli del pubblico, gli amatori, cosa vanno a fare ai concerti, o perché acquistano tonnellate di dischi o ascoltano concerti in radio o tv, se sono ignoranti. Se in radio trasmettessero una commedia in turco, la ascolteremmo? No, perché il linguaggio non ci è noto. Allora perché ascoltare un brano musicale se ignoriamo il codice? La verità è che questa è una balla! In realtà il codice lo conosciamo, lo abbiamo tutti nella coscienza, è un tipo di linguaggio molto più profondo di quello verbale, che è una estrema semplificazione e quindi localizzazione di quello universale. Anche in musica ci sono state molte localizzazioni, ma molti aspetti permangono in ogni manifestazione musicale ovunque. Si dice spesso che la musica è linguaggio universale. Ma come lo spiegherebbero i tanti che si riempiono la bocca con le scale indiane, giapponesi e via dicendo, del fatto che la musica tonale è "un'abitudine" e che non è un linguaggo superiore a quello degli altri paesi e via dicendo? Se così fosse non sarebbe assolutamente un linguaggio universale. E' poi vero che l'occidente ascolta con fatica i prodotti musicali dei paesi arabi o orientali, forse anche viceversa, ma questa è una problematica di sviluppo sociale. Cosa c'è di universale in ogni linguaggio musicale? Il fatto che i suoni alla base di qualunque musica non possono non rispettare determinate regole. E' come la legge di gravità; strumentalmente si può obiettare anche che la gravità non è esattamente identica su tutta la superficie terrestre, ciò non toglie che tutti gli esseri sulla terra devono fare i conti con essa. E tutti coloro che fanno musica non possono fare i conti senza l'inoppugnabile realtà che le vibrazioni sonore ogni volta che raddoppiano producono un suono "identico" se pur più acuto, che i musicisti occidentali definiscono ottave, ma le si chiami come si vuole, da questa verità non si esce. Non si esce nemmeno dalla realtà che ogni corpo vibrante regolarmente emette, dopo l'eccitazione iniziale, una serie di suoni secondari (guarda caso dipendenti dalla gravità) uguali in ogni parte del globo, che chiamiamo armonici, e che sono sempre e ovunque quelli: ottave, quinte, terze... ecc. (definiti secondo il nostro sistema). Questo linguaggio universale è già anche dentro di noi, perché l'uomo è in grado di emettere suoni e nei suoni ci sono gli armonici, quindi non possiamo non conoscerlo; possiamo non averlo portato a coscienza! Ma molti musicisti istruiti, molte di queste cose non le sanno o tentano di negarle. Quando da un suono ci si sposta verso un altro suono, si determina un "intervallo". Questo intervallo produce negli esseri umani un certo sentimento. Può essere più o meno manifesto, ma c'è sempre. Quando ci si sposta ripetutamente da un suono all'altro si determinano serie di intervalli che definiamo melodie. Le possibili melodie sono miliardi. Ieri sentivo su f.b. un prodotto computerizzato, e cioè la celebre "toccata e fuga" di Bach eseguita con un buon campionatore organistico con le melodie rivoltata, cioè gli intervalli "girati" (una terza maggiore ascendente diventa discendente e così via) così come le scale o gli arpeggi ascendenti diventano discendenti, ecc. Beh, già dopo pochi istanti era evidente l'insulsità del progetto! Non perché non fosse più riconoscibile l'originale, semmai proprio per quello! Una serie di note senza alcun... SENSO! ma attensione, quando parliamo di senso, parliamo proprio di DIREZIONE! Ecco qua; quando da un primo intervallo andiamo verso un secondo intervallo, COSA GIUSTIFICA questo intervento del compositore? cosa ha MOSSO nella sua fantasia la necessità di fare quell'intervallo e non un altro? Oppure di provare diversi intervalli fino a decidere... QUELLO!? e la cosa si fa più ardua man mano che procede. Molti taglian corto: l'ispirazione! il genio! il talento! Ovviamente diversamente graduati. Perché le 43 sinfonie di Michael Haydn sono molto meno celebri delle oltre 100 del fratello Franz Joseph? Perché i tanti bellissimi lavori dei vari figli di Johann Sebastian non raggiungono la fama di quelle del padre? E la risposta può solo e sempre essere: coscienza! Siamo d'accordo che J.S. Bach era "più geniale" dei figli, così come Franz J. Haydn era più genio del fratello, ma poi sempre sul generico e fumoso stiamo se ci accontentiamo di questo; cos'è il genio e cos'è l'ispirazione, se non un collegamento più puro e diretto con la coscienza? Grazie ad essa possiamo scegliere quegli intervalli e creare quelle melodie (e in seguito armonie) che destano in chi ascolta determinati sentimenti IN QUANTO la stessa identica coscienza si è MOSSA grazie all'eccitazione da loro provocata. E' poi un gioco speculare; se chi ascolta non ha quell'accesso puro e diretto alla coscienza, non coglierà, non sarà così colpito e coinvolto, e questo è un cammino di consapevolezza che le persone possono e dovrebbero fare, ma entriamo nel difficile, lasciamo stare. Cosa capita a questa massa di intervalli musicali che definiamo melodie, che poi possono porsi anche verticalmente creando varie linee melodiche sovrapposte e accordi armonici? che formano un complesso componimento avente, innanzi tutto, un inizio e una fine. Cosa lega l'inizio e la fine? Questa è una domanda che credo ben pochi si pongano! I musicisti che hanno studiato parlano di varie "forme", e va bene, ma innanzi tutto bisognerebbe capire che relazione c'è tra inizio e fine, altrimenti diventa una SOMMA di particelle una dopo l'altra, dove la fine avverebbe quasi casualmente. Viceversa è anche questa una dote essenziale; ascoltando un brano si può avere la sensazione che è durato troppo, o troppo poco, che è terminata inaspettatamente, che non si è capito il finale, ecc. Questo cosa ce lo comunica, se non la coscienza? E come questo molti altri aspetti. Ad esempio il fatto, necessario, di un punto culminante. E quindi l'articolazione. Il punto culminante è indispensabile, ma avrebbe poco senso senza articolazione, cioè se un brano proseguisse piattamente per un certo tempo e poi improvvisamente si innalzasse tensivamente per manifestare un climax, noi lo vivremmo male, perché dopo una fase stagnante, noiosa, l'improvvisa elevazione ci farebbe "risvegliare" all'improvviso. Quale sarebbe la direzione, il senso? Avremmo, come purtroppo quasi sempre è, un filo interrotto, per cui il possibile legame tra inizio è fine non esiste. Ma, diciamo subito, la stragrande maggioranza dei compositori (noti) questo filo invece lo tiene ben saldo. Il problema si crea in chi è deputato a far rivivere ogni volta una composizione. Per tagliare un po' corto, visto che il post è già lunghetto, arrivo a un possibile punto chiave. Il brano inizia, e l'esecutore, o gli esecutori, danno vita a una prima battuta musicale. In quelle prime note saranno impiegati diversi parametri, ma fondamentalmente due: il tempo e l'intensità (le altezze e gli strumenti sono decisi a priori, dal compositore o da eventuale trascrittore). Quel tempo e quell'intensità non sarebbero rigorosamente oggettivi, secondo un certo modo di intendere, cioè se c'è scritto "p" (piano), in base a quale criterio si decide QUANTO è piano? quanti "piano" esistono? e lo stesso vale per il tempo: allegro non troppo. Quanto "allegro"? e quanto "non troppo"? Sono valori indicativi. E qui tornano i musicisti che "saprebbero loro". Ma in virtù di che? Pensiamo a quegli scellerati che addirittura arrivano a dire che il "piano" di Debussy è diverso da quello di Beethoven o di Brahms... Purtroppo parole spesso avvalorate da dichiarazioni di pezzi forti come Toscanini, Gavazzeni, Muti e Giulini. Questo è davvero fumo che personaggi pubblici buttano negli occhi di sprovveduti ascoltatori in nome della loro professionalità. Ma quale? Chi ha loro trasmesso questo potere decisionale e selettivo su scelte di tipo sonoro e musicale? Ma andiamo avanti. Fatta la prima battuta, ce ne sarà una seconda, che sarà il frutto della prima, dove la melodia può cambiare oppure no, può esserci una ripetizione o una imitazione, oppure proseguire anche per più battute. In queste battute poniamo che non ci siano ulteriori segni, come crescendi, diminuendo, accenti, ecc. ma permanga, pertanto, il "p" iniziale e, ovviamente, anche il tempo iniziale. Si fa tutto uguale? Sappiamo da una certa grammatica musicale che il battere, ad es. avrà un accento più forte rispetto ai cosiddetti tempi deboli. E dunque? Facciamo sempre tutti i battere più accentati, nello stesso modo? Ma, se li cambio, ho un criterio o vado "a senso"? Beh, talvolta seguire un certo istinto di varietà, di fantasia, può essere, pur nell'arbitrarietà, una scelta più interessante e coinvolgente rispetto a presunti filologi bacchettoni e sostanzialmente aridi e ignoranti, che fanno "ciò che il compositore ha scritto", non riflettendo abbastanza sul fatto che il compositore scrive quanto può. E infatti i compositori dell'ultimo Secolo, non avendo più garanzie sulla efficace azione esecutiva, hanno infarcito le composizioni di indicazioni, persino quanto debba durare in termini temporari fisici una certa battuta (come se un esecutore potesse star lì con il cronometro a misurare ogni nota...). Ma l'impasse resta, perché piani e forti saranno sempre in balia di aspetti insondabili, e il tempo stesso, a meno che il brano sia antimusicale, come è avvanuto molto nell'ultimo Secolo, se eseguito sempre con un tempo rigido, risulterà insopportabile. Dunque, la domanda sarà sempre: cosa giustifica che in quella x battuta hai aumentato leggermente l'intensità? perché hai fatto un leggero decrescendo? un piccolo rallentando? Sono CONVENZIONI? il brano termina e quindi rallento. Ecco, ma da cosa nasce? Perché da qualche anno i "barocchisti" esperti non rallentano più? perché hanno trovato un codice che ci informa che nel 700 non si rallentava nel finale? Questione di stile, dunque? o questione ontologica? Dobbiamo assolutamente partire da questo assunto se vogliamo eseguire, e non interpretare arbitrariamente, una pagina musicale. Sì, lo so, molti diranno che allora non saremo più LIBERI di suonare e cantare, che ci costruiamo una gabbia... Eh no, cari. E' proprio il contrario. La libertà non è una prerogativa di nascita, ce la dobbiamo conquistare, e il perché è semplice: noi ci troviamo a dover plasmare una sostanza materiale, fisica, mentre la libertà attiene a una sfera immateriale, quindi è il suono che costituisce la gabbia, per potercene liberare dobbiamo mettere in campo gli strumenti che ci consentano di fare del suono uno strumento della nostra sensibilità umana, della nostra interiorità. E non basta dirlo. Qualcuno poi dirà che qui non ho parlato di canto... ma invece sì! Prendentevi una paginetta del Vaccaj, tanto per dire, e chiedetevi a ogni battuta cosa giustifica la vostra esecuzione sul piano dinamico e agogico. Dovrete anche avere le condizioni vocali per poter seguire questi criteri, quindi è sempre un tutt'uno, non c'è la Musica E il canto!

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