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mercoledì, marzo 02, 2016

E' scritto, ergo lo faccio.

Parliamo di musica, di esecuzione, una volta tanto. Sempre di più oggigiorno si lega l'esecuzione alla pagina scritta (un tempo era molto più accesa la creatività e l'improvvisazione). Cos'è uno spartito o una partitura? E' un foglio su cui sono vergati, secondo regole ormai vecchie e consolidate, vari segni relativi a una codifica di natura musicale. Ovviamente li può decodificare, con vari gradi di difficoltà, chi ha studiato la morfologia musicale. Nel panorama post novecentesco e pre seicentesco, occorre qualche studio in più perché prima si ricorreva a notazioni più sommarie (più si va indietro nel tempo più occorrono competenze specifiche), in tempi recenti sono state adottate forme di notazione talvolta assai libere, non di rado al limite dell'incomprensibile, di solito spiegate dall'autore come premessa. Rimaniamo nella stesura classica. Una volta assodato che sappiamo leggere i segni, e successivamente che sappiamo tradurli in suoni, o mediante uno strumento o mediante la voce, cosa possiamo concludere? Che con questa pura conversione facciamo musica? Assolutamente no! Pensiamo di leggere un testo in una lingua a noi non nota, ma scritta con i caratteri latini comuni: Mettiamo: "Serchette dalino zasu". Noi sappiamo leggere e produrre suoni relativamente a ciascun segno e a ciascuna parola, ma i significati resteranno ignoti. E' esattamente la stessa cosa! Quando noi "leggiamo" le note di una partitura, con uno strumento o con la voce, pensiamo di averne colto il significato per il solo fatto che le so "suonare"? Ma si può andare un po' oltre, anzi, sarà bene andare, perché le obiezioni potrebbero essere parecchie. Se io suono con un ritmo due crome una semiminima: "mi mi mi/mi mi mi/mi sol do re mi", chiunque riconosce il temino di Jingle bells. Questo è un riconoscimento musicale analogo al riconoscere il significato di una parola? Superficialmente forse sì; se io dico "banco", la memoria si riallaccia a un oggetto, quindi la comprensione è fisica, e anche il motivetto torna facilmente alla memoria, ma se io elimino la memoria, quindi pronunciassi una parola che, pur esistendo, non è tra quelle note, non posso che allargare le braccia e dire: non so cosa voglia dire!, così come se dicessi parole in una lingua esistente ma non conosciuta, tipo cinese o russo (parlo per me). Se funzionasse allo stesso modo, come faremmo ad ascoltare tutta la musica che non conosciamo? Non potendo innescare processi mnemonici, dovremmo dire che di musica non capiamo niente. E' pur vero che per pigrizia il ricorso alla memoria è sempre in agguato, quindi appena ci pare di udire qualche sequenza di note già sentite, subito diciamo "ah! sembra...". In ogni modo è evidente che il ricorso alla memoria è utile solo a riconoscere brani noti, ma in realtà noi possiamo dire di "comprendere il significato" di una sequenza di note solo perché le possiamo ricondurre a un brano già noto? No, questa è una forma di pigrizia, perché sapendo "come fa" non facciamo la fatica di dover ascoltare, essendo già, più o meno, memorizzato. Ma, che sia noto o meno, il significato non dipende dall'appartenere a qualcosa di già scritto ed eseguito, altrimenti nessuno comporrebbe più! Se questo problema può essere importante per chi la musica la ascolta, pensate a quanto sia impegnativo e oggetto di grave responsabilità per chi esegue! Apro uno spartito, vedo una miriade di note, e devo arrivare a poter dire a me stesso: "ho capito questo brano e sono in grado di trasmettere questo messaggio a chi ascolta". Oppure: "leggo queste note il più oggettivamente possibile e lascio che il pubblico ci senta qualcosa"; oppure ancora: "suono queste note cercando di dare il senso delle emozioni che provo"; infine: "cerco di capire il senso, la direzione di quanto il musicista ha annotato, riconoscendo il percorso che porta dall'inizio alla fine, e di renderlo in modo trasparente, cioè evitando di "mettermi in mezzo"".
Quante volte noi sentiamo dire: "Che brano noioso!" In alcuni casi può essere vero, ma in ogni modo occorrerebbe sempre la domanda: "è il brano che è noioso o è l'esecuzione che non rende giustizia?". Diciamo pure che ci sono brani non di semplice dipanamento, dove la mancanza di una esecuzione di alto livello può sicuramente destare noia, perché mantenere vivo l'interesse è un'impresa complessa. Ma non può nemmeno essere un obiettivo fine a sé stesso! Purtroppo in questo tempo di decadenza, assistiamo sempre più a concerti dove accanto a qualche classico e a qualche contemporaneo, vengono posti brani noti di musica da film o di programmi televisivi, perché in questo modo la riconoscibilità, la celebrità e la facilità di fruizione tengono il pubblico seduto, laddove si "romperebbero le scatole" dalla noia, appunto. Quindi non: cerchiamo di far capire la musica alla gente, ma cerchiamo il modo di portarli a teatro e poi cerchiamo il modo di tenerceli. Naturalmente ciò non riguarda gli snob, che, lungi dal capire qualcosa di musica, vanno solo dove ci sono effettivamente musiche noiose, sia composte che eseguite! Allora la domanda è: cosa rende noioso un brano, e quale strada corretta devo usare per evitare di rendere un brano (che non lo è potenzialmente) noioso? La risposta in realtà è di grande semplicità! Se dopo un certo tempo cala il mio interesse, mi annoierò. Quindi cosa mantiene desto l'interesse? La tensione. Naturalmente non una costante ed elevata tensione, intanto perché ci si abitua, e in secondo luogo perché potrebbe diventare insopportabile, come certi film horror, dove da un certo punto in avanti non c'è che... orrore! Il musicista è colui che sa dosare e distribuire con saggezza ed equilibrio lungo il brano, in base a una serie di parametri, la tensione. Il musicista che si appresta ad eseguire, deve riconoscere questo percorso tensivo e saperlo restituire agli ascoltatori, che così potranno davvero rimanere inchiodati alla sedia, così i sentimenti e gli affetti custoditi nella coscienza potranno liberarsi e portarli al sommo piacere dell'ascolto.

2 commenti:

  1. Quando capita di sentire un musicista con la M maiuscola eseguire un brano, non si riesce a smettere di ascoltarlo; è magnetico: si segue lo snodarsi del pezzo dall'inizio alla fine senza passaggi a vuoto, con gran godimento emotivo e direi anche intellettuale! Viceversa, quando l'esecuzione è meccanica, routinaria, come se a suonare fosse un automa e non un essere umano, viene voglia di staccare già dopo pochi istanti, non appena finisce l'esposizione del motivetto famoso o orecchiabile.
    A proposito della memoria, mi rendo conto che una delle maggiori difficoltà quando si esegue un brano, è riuscire a viverlo come se fosse la prima volta! Il che ha quasi del paradossale, considerando che di solito il pezzo è stato studiato al punto da saperlo a memoria! In fondo credo che, anche eseguendo un pezzo di repertorio codificato da altri, l'idea debba comunque essere quella di una improvvisazione. L'abitudine è nemica della musica, e lo stesso vale per la voce. Non è la memoria di una determinata posizione interna o di una sensazione fisica, o il compiere determinati esercizi meccanicamente come un rituale, a consentirci di trovare la perfetta condizione di galleggiamento sul fiato. Sarebbe facile se bastasse questo... e non solo non basta, ma rischia di essere addirittura d'intralcio e di far imboccare strade sbagliate, fissare difetti d'ogni tipo...

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  2. Tutto giusto! E' proprio così, la memoria non solo non è il mezzo idoneo a far musica, ma può risultare controproducente. Il buon esecutore è come se componesse, perché, tolto il "seme" originario del brano, tutto ciò che segue è una conseguenza, dunque basta seguire con una giusta e libera coscienza.

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