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domenica, agosto 28, 2011

Il pallone elastico

In tutti gli scritti sul canto, anche presenti in questo blog, si focalizza il contenitore dell'aria come una struttura piuttosto rigida e con un comportamento prevedibile. Si fa riferimento quasi maniacale al diaframma come muscolo espiratore fondamentale, artefice e protagonista indiscusso del buon canto. Più volte, e fin di primi interventi su questo blog, abbiamo focalizzato la componente MECCANICA del fiato, per nulla secondaria, come speriamo di aver sufficientemente evidenziato nei post precedenti. Possiamo far riferimento al pallone, il cui funzionamento è identico. Nel pallone noi abbiamo un involucro ELASTICO, dotato di una valvola, che viene riempito d'aria ad una determinata pressione. Se il pallone è costruito correttamente, tutta la membrana esterna si espanderà leggermente durante il gonfiamento (inspirazione), e produrrà una ricaduta, ovvero pressione, sull'aria contenuta; aprendo la valvola, noi avremo una fuoriuscita d'aria proporzionale alla pressione, quindi maggiore nei primi secondi e via via meno, in quanto la membrana a un certo punto cesserà di esercitare pressione, anche se l'aria continuerà ad uscire finché la pressione sarà equiparata a quella esterna. (come spiegherò in un post successivo, i polmoni però hanno una sostanziale differenza col pallone, in quanto non sono "sacchi" di aria, ma assimilabili a spugne, con una struttura decisamente particolare). Nel corpo umano NON E', in condizioni normali, la stessa cosa!! Il perché è noto. L'istinto si ribella a un lavoro non necessario e anzi contrastante con il funzionamento fisiologico, e quindi invia stimoli al diaframma, in quanto muscolo più importante e quindi idoneo allo scopo, affinché l'aria venga espulsa e il peso "scrollato di dosso". In queste condizioni il canto non si può affermare artisticamente, perché gli apparati non sono equiparabili con quelli di uno strumento, quindi si può fare canto, fino a un certo livello, ma in condizioni "tecniche", cioè impedendo o forzando mediante azioni muscolari, i nostri apparati a permetterci un canto, che però "lui" continuerà ad osteggiare, e quindi a creare problemi, fatica, difetti. La disciplina che auspichiamo noi, invece, non crea bellicosità, ma va a superare le insidie istintive, annullandole, e, se sapute gestire, ci può far cantare in modo perfetto per tutta la vita. Nel momento in cui raggiungiamo questo "nirvana", noi ci troviamo anche nella possibilità di modificare sostanzialmente, nell'elasticità consentita dalle fibre, l'anatomia e la fisiologia degli apparati. In particolare adesso ci riferiamo all'apparato respiratorio, che nell'emissione belcantistica può andare a riflettersi nel funzionamento del pallone elastico. Se infatti il diaframma perde quella "animosità" impostagli dall'istinto, ecco che l'involucro polmonare non ha più comportamenti differenziati in varie parti, ma può comportarsi come un pallone, cioè espandersi leggermente in fase inspiratoria, e ricadere in fase espiratoria provocando quel flusso necessario alla fonazione senza più la necessità di appoggio, a meno di frasi eccessivamente lunghe. C'è però un punto su cui è indispensabile soffermarsi! Detto così può sembrare facile, ma quando parliamo di annullamento di azioni istintive non ci limitiamo all'azione sollevante del diaframma, ma includiamo la pressione sottoglottica, la quale è la principale artefice di ogni difetto vocale. Il passaggio a questo atteggiamento respiratorio, che identifichiamo col termine "artistico-costale", richiede senza possibilità di minimo equivoco, l'annullamento (sorta di "galleggiamento" della laringe) di questa forza. Se poi il "pallone" cui facciamo riferimento più che da calcio sarà da rugby, allora avremo qualche ulteriore vantaggio, come ho cercato già di spiegare nei precedenti post. Ma ripeto ancora una volta: queste notizie acquisitele mentalmente, rifletteteci, individuatele come obiettivo, ma non provate a farle, perché ne avrete delusioni e conseguenze.

sabato, agosto 27, 2011

Il fiato posturale

Nel rileggere alcuni appunti del m° Antonietti, trovo questo termine che inserisco subito nel blog, perché può aiutare a spiegare un concetto importante, che abbiamo già trattato ma che può essere ancor meglio compreso.
Come ho già indicato fin dai primissimi post, il fiato, nella vita dell'uomo, non ha esclusivamente il ruolo di scambiatore chimico-gassoso del sangue, ma altri, e in particolare uno che interviene prepotentemente nel campo dell'educazione vocale. Il fiato contenuto nei polmoni (che come sappiamo solo in parte viene estromesso, mentre una parte non indifferente resta sempre presente), grazie alla propria mobilità, e grazie all'elasticità delle forme e della muscolatura che lo contiene, funge da "cuscinetto" nei movimenti del busto, specie in avanti. Il torso deve la propria posizione eretta non solo allo scheletro e alla muscolatura, ma anche al fiato. Questo fatto, sottovalutato o meglio direi sconosciuto alla quasi totalità delle scuole di canto, è invece fondamentale nella comprensione dei fenomeni che ci guidano alla conquista di una emissione artistica esemplare. Se sappiamo, infatti, che una parte del fiato che possediamo è riservata a sostenere il busto, come prima riflessione deduciamo che l'emissione vocale non può essere libera, essendo il fiato già impegnato in altra attività. Entro ancor più nel dettaglio: se la postura del soggetto è del tutto corretta, quindi si sta ben diritti, con atteggiamento nobile, gran parte del lavoro verrà compiuto dalla muscolatura dorsale, dentale laterale e in parte anche grazie alla parete addominale superiore (sopra l'ombelico). Quest'ultima non agisce direttamente sulla postura del busto, come è facilmente osservabile, ma indirettamente, grazie al fiato. La leggera depressione della parete addominale, permette al diaframma di assumere una posizione orizzontale e permette quindi al fiato di adagiarsi più efficacemente su di esso. Se tutto ciò viene rispettato, nei primi secondi di canto tutto funzionerà a meraviglia. Dopo alcuni secondi il consumo dell'aria comporterà facilmente un appena percettibile, ma comunque importante, avanzamento e ricaduta del busto (conseguente anche l'inclinazione delle coste), che andrà a premere sul fiato e sul diaframma. A questo punto gli automatismi istintivi andranno a cercare di chiudere la glottide, in modo che l'aria ancora presente impedisca al torace di piegarsi ulteriormente, con un incremento di lavoro, meno efficace, della muscolatura dorsale. A questo punto, quindi, noi disporremo non solo un fiato che l'istinto ci suggerisce di trattenere, ma anche di una laringe meno libera. Quindi se da un lato noi dobbiamo attrezzarci affinché il corpo stia per il maggior tempo possibile ben eretto e con postura nobile, dobbiamo altresì avere la soluzione affinché non si vada a utilizzare il "fiato erettivo", cioè quel fiato sempre presente in noi al di sotto di quella quota eccedente che viene utilizzata per lo scambio gassoso. In poche parole, si deve imparare a respirare spesso e poco. Ancora un punto. Rimanendo in questa posizione ben diritta e nobile, esiste un "segnale" che ci indica quando il rapporto tra il fiato e la stabilità corporea inizia a vacillare, ed è rappresentato da una sorta di "cuneo" pressorio che si forma al centro del petto con la punta che preme alla bocca dello stomaco. Quando si avverte questo cuneo in teoria dovremmo respirare, ma se ci è impossibile per motivi di fraseggio, l'alternativa è bilanciare facendo forza nello stesso punto, cioè facendo rientrare "la fontanella dello stomaco" come già suggeriva Garcia.
Avvertenze: questo discorso non è praticamente utilizzabile da chi è all'inizio dello studio del canto, e non vale, e non può valere, con chi (ancora) utilizza una respirazione diaframmatica, perché è una respirazione sferica, quindi più lunga in inspirazione e il corpo non può ergersi del tutto correttamente. E' pertanto un consiglio importante, un'informazione utile, da mettere in pratica sotto osservazione dell'insegnante (come sempre e tutto, del resto), solo quando risulteranno blande le reazioni diaframmatico/istintive, e sarà possibile assumere questa posizione eretta e nobile senza creare pressioni sottodiaframmatiche e sottoglottiche che renderebbero del tutto vano il discorso. Questo atteggiamento presuppone il passaggio a una respirazione toracica, cioè costale e fino a quella costale-artistica, che si atteggia orizzontale e, pensate un po', può addirittura confondersi con la clavicolare (ma è ovvio che non lo è, ma per questo diciamo di non provarla se non c'è la piena coscienza dell'insegnante) che permette una inspirazione molto più rapida. In questo modo noi possiamo realizzare nel contempo le due condizioni in modo ottimale: respiri brevi e rubati (che permettono di rimanere sempre in condizione di postura perfetta) che possono arrivare a far pensare che si abbiano fiati infiniti, e canto molto più facile perché pressoché annullato l'appoggio, cioè quella serie di azioni meccaniche che rendono il canto meno fluido e facile per esigenze di equilibrio pneumatico. Provo a sintetizzare: in condizioni fisiologiche esistenziali comuni, il diaframma preme sempre leggermente sotto la glottide, in quanto valvola dei polmoni; la disciplina vocale può creare le condizioni di svincolo valvolare della laringe. In questo modo il diaframma perde gran parte della sua forza di spinta perché l'istinto, ingannato, si convince che non ci sono pericoli in agguato per la nostra respirazione. A questo punto è possibile passare a una respirazione toracica (costale) perché le eventuali pressioni da parte della parete addominale non incidono più sensibilmente sul sollevamento diaframmatico; questa, che possiamo definire più correttamente integrazione respiratoria, permette un più efficace assetto del diaframma stesso, che si pone orizzontalmente (mentre nella diaframmatica si inclina anteriormente, spingendo sull'addome stesso), permettendo 1) il sostegno muscolare esterno del busto, togliendo lavoro al fiato e al diaframma 2) un utilizzo più adeguato del fiato stesso, libero e meno pressato. In questa fase però l'appoggio ha ancora ragione di esistere, sebbene più leggero. Quando ogni funzione istintiva legata alla respirazione e al sostegno della persona sarà superato, la respirazione costale potrà ulteriormente evolversi sino a orizzontalizzarsi, permettendo l'uso di una porzione alta e immediatamente disponibile di aria, che può essere ricambiata con estrema velocità, e che permette un canto estremamente raffinato perché sarà venuto meno ogni necessità di appoggio.

mercoledì, agosto 24, 2011

Il ribelle 2

Il limite del blog, relativamente al tipo di comunicazione che sto portando avanti, è che mette sempre in testa l'ultimo intervento, mentre spesso, per non dire sempre, occorrerebbe la consecuzione temporale, come in un libro; invito pertanto i lettori che non l'avessero già fatto a leggere, prima di questo post, il precedente "il ribelle". Siccome ho la sensazione di non essere riuscito a spiegare ancora compiutamente questo aspetto dell'apprendimento del canto, e ritenendolo fondamentale, mi accingo a fare qualche esempio più mirato e illustrativo.

Poniamo che si presenti un ragazzo, giovane, di belle speranze, ineccepibilmente tenore, con voce bella, piena, ma con qualche difficoltà. Non ha mai studiato, non sa nulla di "tecnica" del canto, teorie, vocalizzi, ecc. Si affiderà del tutto a chi lo convincerà maggiormente tra diversi insegnanti. Lo si esamina facendogli eseguire un breve vocalizzo sulla O, iniziando da una nota relativamente bassa, e portandolo gradatamente verso gli acuti. Tutte le note che esegue risultano di ottima fattura, MA, raggiunta la nota mi3, il ragazzo mostra disagio, la nota viene meno bene, e il disagio prosegue anche più evidente per alcune note successive che comunque riesce ad emettere, fino a coprire una normale estensione tenorile.
Un primo insegnante potrebbe dire:
per affrontare queste note acute devi bloccare la laringe, che altrimenti sale, chiude la gola e ti rende difficile fare le note alte, inoltre devi alzare il palato molle per dare spazio e "spingere" verso la pancia e le reni per aumentare l'appoggio, aprendo il più possibile la gola.
Un altro potrebbe dire:
qui senti già il passaggio, e siccome bisogna prepararlo, devi oscurare il suono.
Un altro ancora può dire:
fin qui il tuo fiato è sufficiente, ma adesso comincia a non essere più adeguato, per cui occorre esercitarlo e metterlo in condizioni di farti produrre efficacemente questa e le prossime note.
Un altro ancora potrebbe dire:
tira la voce verso di te, e mandala verso il centro della calotta cranica.
un altro dice:
devi alzare il suono, mandandolo verso gli occhi.
e poi:
devi metterti nelle condizioni di inclinare la laringe in modo che assuma la posizione corretta per affrontare gli acuti.
Potrei continuare per pagine intere a fare esempi di come diversi insegnanti potrebbero affrontare la "cura" di questo povero ragazzo. Il quale non è malato! Non ha nulla che non va, solo che si rende conto che da una certa nota in avanti non riesce a cantare come gli piacerebbe e non sa come fare. La risposta comune è: occorre apprendere "la tecnica" per affrontare gli acuti, e ciascuno offre la propria soluzione. Ma perché occorre una tecnica per affrontare l'acuto (dico acuto ma ovviamente è solo un esempio estendibile a qualunque tipo di difetto o carenza si presenti)? Cioè, cosa manca a questo giovane per poter proseguire normalmente fino a coprire la gamma delle note tipiche della classe cui appartiene? In realtà non manca niente. Qualcuno può dire:
se imparo a suonare il pianoforte, io metto una mano sui tasti, e mi rendo conto che posso suonare le cinque note sotto le dita, ma poi come faccio a proseguire? Ecco che l'insegnante mi deve mettere in condizioni di poter suonare tutte le note della tastiera, cioè mi insegna una tecnica, senza che si sentano "scalini" ogni volta che compio un movimento per proseguire.
Vero, ma questa è un'analogia del tutto errata, perché non si possono assimilare il numero delle dita alle corde vocali, perché esse possono tendersi per fare un numero molto elevato di note (tutt'al più dovremmo osservare che le dita non si piegano e controllano tutte con la stessa facilità!!). Sappiamo, inoltre, che ci sono persone, rare ma non rarissime, che questa possibilità posseggono naturalmente, cioè sono in grado di cantare su circa due ottave o più senza evidenti disomogeneità. Non stiamo a dire che è molto maggiore la quantità di persone che ha grosse e anche enormi difficoltà a cantare anche su poche note, in questa fase non ci interessa, o meglio la soluzione che andiamo a scoprire vale per tutti. Torniamo al nostro caso e continuiamo a porci la domanda: cosa impedisce al neo-allievo di proseguire con facilità il proprio canto? Può aver ragione l'insegnante che dice: il fiato non è adeguato a produrre le note acute. Ma possiamo dire che abbia del tutto torto l'insegnante che dice: ti si alza la laringe, quindi premila verso il basso. E non sta anch'egli provvedendo mediante una respirazione diaframmatica a risolvere il problema del fiato? E cosa c'è di sbagliato nel dire: butta la voce verso gli occhi e la fronte? Magari aggiungendo di "sostenerla" premendo fin dai muscoli pelvici!? Noi di questa scuola ci scandalizziamo di tutti questi consigli, ma la cosa buffa è che ognuno di questi insegnanti si scandalizza di tutti gli altri, ritenendo corretto solo il proprio approccio. Poi non dimentichiamo l'insegnante che, anch'esso inorridito da tutti questi consigli "meccanici" e artificiali, dice:
non fare niente, cerca solo di rilassarti e lascia che il suono fluisca da sè.
La realtà dei fatti è che tutti questi consigli, senza alcun dubbio, sono destinati in diversa misura a fallire. Può sembrare perfino cinico asserire che anche quelli che hanno un'idea più corretta, meno violenta e artificiosa, si ritroveranno con un allievo che svilupperà difetti. Allora come sta la faccenda?
L'esame è il seguente: questo ragazzo è in grado di cantare per circa una nona, da do2 a re/re#3, con assoluta facilità, morbidezza e qualità. Chiunque lo sente, lo può affermare. Questa voce è, almeno in parte, "naturale", cioè vuol dire che gli apparati fono-respiratori sono predisposti perché queste note si producano con facilità, senza preoccupazioni. Il mi3, mettiamo per esempio, appare difettoso; lo avverte lo stesso allievo, e qualunque insegnante. Perché? Come ho già detto più volte, non è che "manca" qualcosa, ma si è evidenziato un ostacolo, cioè il corpo stesso perde le condizioni di "armoniosità" di tutto il tratto precedente, e dunque le note, da qui in poi, si fanno forzose e meno belle, anche perché il ragazzo stesso, sentendo di non riuscire a mantenere quella facilità, è portato a cercare una soluzione, che al 90% sarà quella di "spingere", di mettere più forza, il che è del tutto logico. Può essere che il fiato non sia più adeguato? Sì, però spieghiamo cosa cambia dal re, ad esempio, che viene ancora bello e facile, al mi, che invece risulta ostico. Ce ne vuole di più? Bene, e come si fa ad acquisirne? Si fa ginnastica? si va a correre? Può darsi, ma posso anticipare che da questa strada i progressi saranno quasi nulli. L'insegnante stessa è probabile che sappia che l'ostacolo è determinato non tanto da una "quantità" d'aria insufficiente, perché se così fosse tutta la vocalità, anche quella del tratto inferiore, sarebbe difettosa, ma da un carente "appoggio". Ma siamo sempre da capo: perché tutte le note inferiori appoggiano, si dedurrebbe, e quella e le successive no, o perlomeno non abbastanza? Qui subentra l' "affondista", che dice:
ecco qua! la laringe si alza, il suono perde appoggio ed efficacia; quindi facendolo premere su di essa, risolviamo il problema e il suono verrà forte e pieno.
Se il ragazzo-cavia è sufficientemente intelligente, attento ai risultati e determinato nelle proprie scelte, non potrà non rendersi conto e denunciare che la salita, pur avvenendo magari anche con maggiore intensità, non rispecchia la facilità e la fluidità del tratto inferiore. E qui, dunque, ecco che qualcuno pronuncia la frase fatale: "ma (soprattutto per il tenore) la zona acuta è costruita!". E qui torniamo sempre all'altro modello: come mai alcuni invece il settore acuto ce l'hanno "naturale"? Si scatenano le soluzioni: quello è un fenomeno, quello ha la voce più leggera, quello "sembra" naturale, ma fa così e cosà, solo che non ve ne accorgete, perché canta "come dico io" (sì, la cosa incredibile è che alcuni cantanti sono riconosciuti validi pressoché da tutte le scuole, e, ovviamente, cantano "come dicono loro"). Quindi è così difficile rendersi conto che certe note, o un settore della voce, non possiede la stessa facilità, fluidità, efficacia di un altro, perché è il corpo stesso che lo impedisce? Se sono in grado di fare 10 note bellissime, perché l'11^ non segue la stessa sorte? Quanti allievi e quanti cantanti si trovano a pronunciare la fatidica frase:
ma come è possibile che non posso fare quel mezzo tono in più? E' solo mezzo tono!!
(lo dicono, ovviamente, soprattutto quando arrivano a un bel si naturale e devono fare un do!). Già; molti semplicemente ritengono di non avere "forza" sufficiente. Forza per far cosa? E' possibile che per far vibrare due muscoletti minuscoli occorra tanta forza? bella domanda! La risposta è no!!! Non ci vuole tanta forza!! Ma... allora cosa richiede forza? Perché quasi tutti i cantanti faticano, perché si stancano e perché qualcuno arriva a farsi del male e a perdere la voce professionale anche per sempre, mentre vediamo alcuni che cantano come niente fosse, almeno per un po' di tempo? Il nostro corpo si ribella. In alcuni casi si ribella dopo 2 note, in altri dopo 5, altri 10, e in qualche raro caso non si ribella se non dopo 16 o addirittura 20 o più note, però con un subdolo congegno a orologeria! Invece di rivelarsi subito in un determinato punto, lo farà dopo tempo, e sempre a partire da determinati punti chiave. I punti chiave sono noti, anche se la maggior parte non sa perché, ma di questo non parlo, dandolo per scontato, avendolo anche trattato nei post appena precedenti. Quindi qualunque soluzione, sia che si possa considerare "buona", cioè di buon senso, tipo migliorare il fiato, sia che si possa considerare cattiva o pessima, tipo tirare il suono indietro, o schiacciarlo verso il basso o alzarlo verso l'alto, ignorando la vera causa dell'ostacolo che è l'istinto o il corpo stesso che si ribella, che si oppone a quella azione, non farà che stimolare ulteriore reazione, con conseguenze che si rifletteranno anche sul resto dell'estensione. In tutti questi casi, se l'allievo decidesse di seguire questi insegnamenti, il risultato potrà andare da una voce tutta ingolata a una voce rotta in due pezzi, una più piacevole ma magari con problemi di intonazione, una chiaramente difettosa, a infinite sfumature, dove però nessuna potrà raggiungere l'auspicato obiettivo di una voce tutta ugualmente bella, intonata, omogenea nel colore, nella dizione, nella ricchezza timbrica e sonora, diciamo "naturale", pura. Conoscendo i motivi dell'ostacolo, noi non andiamo a inventarci una tecnica per superarlo, perché già sappiamo che qualsiasi tecnica non farebbe che irritare maggiormente il nostro sistema di difesa e quindi solo apparentemente o temporalmente potremmo superarlo, ma utilizziamo, mediante una disciplina atta allo scopo, esercizi che "aggirino", "assecondino solo apparentemente" l'istinto stesso, o lo mettano in condizioni di non reagire, o blandamente, andando nel contempo a creare le condizioni perché si "recuperi" quello strumento vocale già potenzialmente in noi. Nel caso di un/una cantante che possegga già in natura una voce in grado di esibirsi a un buon livello, lo studio diventerà indispensabile, anche se più rapido, per creare quella coscienza indispensabile a prevenire e superare le difficoltà che fatalmente interverranno a un certo punto,a una certa età (che può anche essere assai prossima) perché non può che essere così, non ci sono alternative.
Adesso mi auguro che tutto appaia più luminoso e comprensibile, ma fate tutte le osservazioni che ritenete opportune. Sottolineo ancora che questi due post sono indispensabili; leggeteli dunque più volte e commentiamoli finché basta, perché se non si assimilano questi concetti, tutto il resto diventa un chiachiericcio inutile.

Il ribelle

C'è un luogo comune che forse non ho mai affrontato direttamente, pur essendo implicito in tutti gli scritti del m° Antonietti e miei. Ritengo di dover far chiarezza in merito.
Quando un cantante perde la voce dopo pochi anni di carriera, o va comunque incontro a un declino prematuro, il primo giudizio che viene dato comunemente è: "non aveva tecnica", oppure "aveva una tecnica sbagliata". Devo dire che essenzialmente questo giudizio è sbagliato, e vado a dimostrarlo.
Prendiamo due cantanti: il primo è un o una cantante che a 16/18 anni ha scoperto il mondo del canto, ha aperto bocca e ha cantato come un usignolo; è andato/a un po' di tempo a studiare musica, brani e stile, dopodiché ha debuttato e fatto carriera. Poi il declino, più o meno rapido. Il secondo cantante è un o una cantante che, pur in possesso di una voce ragguardervole, non aveva i requisiti per poter cantare subito, per cui ha studiato canto con qualche insegnante per 4 o 5 anni, imparando contemporaneamente le materie affini e quindi vincendo qualche concorso e iniziando una carriera, anch'essa entrata in crisi più o meno rapidamente. Allora noi potremmo dire che nel primo caso non c'era "tecnica", nel secondo caso la tecnica era sbagliata. Per la precisione ripeterò che si accomuna, con il termine "tecnica" un processo composto da due apprendimenti ben distinti e profondamente diversi: il primo, che chiamiamo anche "imposto", è legato ad una corretta emissione e educazione del fiato, il secondo è l'insieme di nozioni musicali e stilistiche relative al genere che andrà a realizzare: canto leggero, jazz, rock, operistico romantico, barocco, classico, ecc. Allora dobbiamo riconoscere che una tecnica erronea non fa perdere la voce; tutt'al più chi ci ascolta ci criticherà perché eseguiamo il nostro genere con uno stile impreciso (ad es. una coloratura "sbrodolata", l'incapacità di fraseggiare correttamente, ecc.) o commettendo errori ritmici e/o melodici... Quindi ciò che ci può portare a una fine prematura della carriera è un imposto sbagliato. Ma il mio intervento non vuol essere di tipo terminologico; anch'io spesso ho definito "tecnica" l'imposto vocale, anche se cerco sempre di precisare e non creare ambiguità in merito. Se il primo cantante esemplificato è in grado istintivamente o naturalmente di cantare, è giusto che acquisisca una tecnica, nel senso "stretto" del termine, ma l' "imposto" ce l'ha già, gliel'ha dato la natura. Allora cosa c'è di "sbagliato", cosa "non ha", qual è la carenza oggetto della fine prematura della voce? In realtà non c'è, non si può dire. Ciò che sappiamo è che minuscole "crepe" presenti nell'emissione di qualunque cantante "naturale", che spesso riesce a notare solo un autentico maestro di canto, col tempo si aprono, si amplificano e portano verso l'abisso ampi tratti della voce, spezzandola in più tronconi o creando vibrazioni, venature, opacità e infiniti altri difetti che rendono sempre meno piacevole, ampia, estesa e fluida quella voce. Ma perché? Non perchè "manca" qualcosa, e che sarebbe la misteriosa tecnica, ma perché "il ribelle", che ovviamente chi ci segue sa benissimo trattarsi dell'istinto di difesa, si accanisce contro ogni tentativo di rendere "naturale" qualcosa di non utile all'esistenza animale. Nel caso del secondo cantante, quello che ha dovuto studiare, cosa ha prodotto il danno che si è poi diffuso fino a rendere inefficace quella voce? Mettiamo, come quasi sempre è, che si tratti di una voce già bella, pastosa, risonante, e che sia carente solo di omogeneità in alcuni tratti e di una autonoma compiutezza esecutiva. L'errore non sta tanto o solo nel dare consigli sbagliati o di "non dare" i consigli giusti, ma nel sottovalutare o, peggio, non valutare affatto le reazioni istintive. Preciso ulteriormente: la seconda cantante, anch'essa, come il primo caso, dotato di bella voce, talento e qualità, nell'affrontare un'aria o un qualsivoglia esercizio, a un certo punto incontra un ostacolo, sente che "qualcosa" impedisce di eseguire una nota, una serie di note, una vocale, ecc., con la stessa facilità, omogeneità o precisione di altre. Quindi un punto problematico. A questo punto un insegnante, o autonomamente, cercherà di superare quell'ostacolo. Non si può dire realmente che un bravo insegnante dia un consiglio buono mentre un cattivo insegnante dia un consiglio sbagliato! Noi potremmo dire che entrambi gli insegnanti danno consigli giusti, ma possono rivelarsi entrambi deleteri se non sanno o non immaginano che qualunque tentativo di superare quell'ostacolo scatenerà comunque l'opposizione dell'istinto che anziché far migliorare l'emissione, produrrà un peggioramento. E da qui inizia la reazione a catena, perché la necessità di superare comunque l'ostacolo produrrà negli insegnanti, o nel cantante stesso, la necessità di trovare soluzioni, ma siccome la vera causa del peggioramento non viene riconosciuta ed è quindi ignorata, sarà abbastanza fatale il ricorso a un peggioramento generale di tutta la vocalità, cioè una "omogeneizzazione" nel difetto, perché portando a un livello più basso anche la parte di voce naturalmente buona, si va a togliere una percentuale di reazione da parte dell'istinto, e quindi anche il precedente punto di difficoltà risulterà meno evidente e sarà più facilmente aggirabile.
Non so se, nonostante gli esempi e i particolari, sono riuscito a spiegare il concetto, che ritengo molto importante da acquisire come abito mentale quando si educa una voce. Se ci sono zone buie, chiedo cortesemente di segnalarle e interverrò ulteriormente. Rileggendo mi rendo conto che la frase meno luminosa sia proprio l'ultima, e proverò a dipanarla prossimamente.

lunedì, agosto 22, 2011

Le altre scuole

Nello strenuo sforzo di chiarire (ovvero aumentare il caos!!), prelevo alcune frasi da un sito di canto per commentare e precisare. Il fatto che sempre più persone si avvicinino al canto avendo nozioni di fisiologia e anatomia degli apparati fono-respiratori, rende sempre più difficile e complicato il rapporto col canto e con la verità dell'emissione belcantistica, in quanto ciò che viene scritto è assai verosimile e credibile, mentre risulta sempre più antiquato, e quindi ritenuto erroneo, il pensiero delle antiche scuole. Non solo, ma a molti appare quasi un vezzo sentimentale quello di rifarsi agli antichi, mentre è nel moderno rapporto scientifico che risiederebbe il corretto approccio. Perché le cose non stanno così lo abbiamo spiegato a volontà, e l'inganno determinato da questa visione ci porterà ancor più lontano. Su questo necessiterà forse un commento più puntuale.

"L’appoggio rallenta la spontanea risalita del diaframma, attraverso l’azione dei muscoli intercostali esterni. Tale funzione interviene prevalentemente nella prima fase dell’ espirazione, e va a ripercuotersi sul grado di pressione sottoglottica, facendo sì che il ritorno del diaframma si coordini alle esigenze dinamiche dell’ emissione fonatoria (piani, forti, acuti, gravi, ecc)."

Non è per niente chiaro, per non dire che è confuso. La prima frase può essere condivisibile: L'appoggio rallenta la spontanea risalita del diaframma. Ma l'azione degli intercostali esterni opera passivamente con la ricaduta delle costole solo nel caso della respirazione toracica, non nella diaframmatica. Ma a questo punto è un'altra la domanda: l'appoggio ha veramente QUELLA funzione? No, in realtà la funzione dell'appoggio è quella di trasmettere al fiato/suono quell'energia grazie alla quale esso può arricchirsi e trovare velocità ed espansione nell'ambiente; questa è un'operazione di "dare-avere", cioè è il fiato stesso a realizzare l'appoggio, cioè a rallentare la risalita del diaframma, senza alcuna necessità muscolare (questo è un equivoco che continuerà a permanere fin quando non ci si sarà resi conto che la respirazione vocale è fondamentalmente diversa da quella fisiologica!).
Sul resto della frase c'è parecchio da dire ed obiettare. Dallo scritto appare evidente che la fonazione è come divisa in due parti: una prima parte in cui si appoggia, una seconda in cui si "sostiene"; da qui emergerebbe che nella seconda parte di una frase non si appoggia più. Non è e non può essere così, perché il fiato ha la necessità di avere per tutto il tempo una costante pressione in uscita; se da un lato è vero che la diminuita quantità di aria impone una pressione addominale, dall'altro l'appoggio deve mantenersi per scongiurare che perda qualità e anche per evitare quanto viene detto successivamente, cioè che la pressione stessa si ripercuota sulla glottide. Uno dei presupposti del canto esemplare è che la pressione sottoglottica si riduca pressoché a zero, in quanto essa è artefice della funzione valvolare della laringe, una funzione istintiva che di fatto limita, e molto, la libertà necessaria al funzionamento strumentale di essa. Pur sembrando paradossale, ma qui entrano in gioco aspetti di elasticità e malleabilità di tutto l'apparatato fono-respiratorio molto importanti, potremmo arrivare a dire che il diaframma non dovrebbe risalire per tutto il tempo dell'emissione vocale. Comunque c'è un altro fatto: il suono, specie quando particolarmente acuto o intenso o scuro, ha l'assoluta necessità di appoggiarsi, per un semplice principio fisico, quindi se esso deve essere costante e uguale per tutta l'arcata respiratoria, è fatale che l'appoggio duri per tutto il tempo.
Poi c'è il fatale equivoco del sostegno. In realtà il diaframma non ha alcuna necessità di essere sostenuto, perché il suo sollevamento è istintivo, non solo nella prima, ma anche nella seconda parte dell'espirazione. Ciò che oggi pochi prendono in considerazione è la ricaduta del petto. Gli antichi ben conoscevano questo aspetto e parlavano proprio di "sostenutezza del petto", significando che occorreva mettere in moto la muscolatura non solo addominale, ma anche dorsale e dentata (laterale) che, sostenendo il busto, impedisca che esso si adagi sul diaframma impedendone la libertà e la giusta postura. Contrariamente a quanti molti credono, infatti, il diaframma non è un muscolo unico e i suoi movimenti non sono univoci, ma possono (e diciamo pure devono) essere differenziati per zone permettendo, proprio grazie a quell'elasticità cui accennavo, la possibilità di mantenere l'appoggio anche in fine di frase, cioè con scarsità d'aria.

venerdì, agosto 12, 2011

Arte e Natura

Non esiste alcuna Arte "naturale". L'Arte è una condizione "soprannaturale", nel vero senso del termine, cioè va oltre quella che è la comune comprensione umana, e dunque viene intesa come qualcosa di "magico", di "trascendente". In effetti, pur senza entrare troppo in disquisizioni di natura filosofica, è necessario comprendere che l'Arte non rientra tra le condizioni animali, e dunque attiene la sfera del "divino", cioè di quelle particolarità non solo riservate all'uomo, ma limitate a un numero non elevatissimo di uomini, pur graduandosi a diversi livelli con una logica piramidale. Ciò che è comune a tutte le Arti è la necessità di superamento di una barriera fisica. Se accettiamo l'assunto che l'Arte è una valenza dello Spirito, il quale non può esprimerla in quanto privo dei mezzi fisici per ottenerla, è chiaro che il corpo è il "mezzo" tramite il quale lo spirito può realizzare il proprio livello conoscitivo; essendo il corpo predisposto per azioni "animali", quindi rozze e poco efficaci, la disciplina è l'unico tratto comunicativo possibile tra corpo e spirito, grazie al quale è possibile plasmare il corpo alle condizioni dello spirito, entro i propri limiti di tolleranza e senza far venir meno le sue esigenze. Questo concetto ci porta a considerare anche che essendo l'Arte una manifestazione "fisica", non può essere compresa "mentalmente", perché è l'azione fisica che può proiettarsi oltre ciò che la mente conosce, in quanto essa è attinente al corpo, non allo spirito, per cui ogniqualvolta il nostro fisico compie un'azione nuova, sconosciuta, si arricchirà di dati che potrà elaborare. Questo processo può continuare (ma non in tutti) fino al momento in cui il corpo termina le sue possibilità di progresso, e raggiunge il "non oltre". Questo "stop" non è da considerarsi come un limite, perché pur essendolo, è anche il raggiungimento della condizione "top", cioè della perfezione artistica, ovvero ancora del "non plus ultra", dell'insuperabile, dunque della Verità. Qualcuno può obiettare che la diversità tra soggetti umani può creare diversità anche di risultato. La cosa è vera solo da un punto di vista estetico; due soggetti, diversamente dotati, raggiungeranno un risultato che appare diverso in quanto uno ha mezzi più sviluppati di un altro, ma i loro concetti ed espressioni del vero, del giusto e del perfetto saranno identici, in quanto appartengono alla stessa tipologia conoscitiva in uno stesso tempo e spazio (cioè sono tutti soggetti appartenenti alla razza umana).
Il M° Juvarra, in uno scritto su FB ha commentato un mio rilievo sulla naturalità del canto paragonandolo alla potenzialità del bruco a volare. Non ho replicato in quella sede perché ritengo controproducente dibattere su una rete così eterogeneamente frequentata con persone con cui ci sono fondamentali punti di vista comuni, però qui ritengo di dover puntalizzare. Il paragone col bruco non ci sta, per evidenti motivi: intanto nessun animale o insetto o altro essere vivente si trova nella condizione di sviluppare un'Arte; in secondo luogo, nell'esempio riportato, è evidente che anche il bruco, come l'altro precedente esempio riguardante il camminare, si trova in una condizione di necessità esistenziale e istintiva. Se non capita niente di violento, la vità del bruco è destinata a evolversi in farfalla. Non è una volontà, non è una opzione, non è una scelta di pochi o tanti, non ha "pulsioni" spirituali che possono o non possono portarlo o meno a quella trasformazione. E' così e basta. Anche lo sport o l'atletica in genere, e in questo sono pienamente d'accordo con lui, non hanno niente a che fare col canto o l'Arte, anche se possono esserci situazioni in cui si può entrare nella condizione artistica (ne parlavo circa un anno fa in un post in cui citavo una frase dell' "eleganza del riccio"), ma perché è solo lo sviluppo (tecnico) di una condizione istintiva: saltare, correre, lottare, tirare, ecc., sono tutte prerogative dell'animale uomo, necessarie, in origine, per cacciare, difendersi, attaccare, ecc. Infatti una differenza fondamentale tra attività artistiche e ateletiche consiste nella necessità di uno sviluppo muscolare evidente, e quello del fiato nell'altro ("spirito"). In definitiva, l'accesso alla Verità è limitato non solo a chi frequenta e pratica l'Arte (quindi i filosofi, per quanto intuitivi e studiosi, non ci possono arrivare), ma la pratica mediante l'unica disciplina tesa al raggiungimento di quell'obiettivo; chi non crede sia possibile, si è già tagliato fuori da sé!

martedì, agosto 09, 2011

La voce grigia

Nel film "le jardin de Celibidache", di cui consiglio vivamente la visione a tutti, a un certo punto il maestro riprende l'allievo che stava (o meglio tentava) di dirigere esclamando: "c'est gris, c'est gris!!". Uno dei "peccati" più grandi che Celibidache poteva riscontrare in una esecuzione, era il "grigiore", cioè l'uguaglianza dei suoni, senza anima, senza vita. Quando si impara, col tempo, ad ascoltare "bucando" la crosta che si forma sulla coscienza, tanta, tanta presunta musica si rivela grigia, morta, noiosa. Non la musica in sè, di solito, ma le esecuzioni, naturalmente. La voce non fa eccezione alla regola artistica. Ieri mi è stato proposto un video su youtube di un tenore giapponese. Se lo ascoltate dopo un mediocre cantante, vi sembrerà notevolissimo. Sa infatti legare, pronuncia piuttosto bene, non si notano scollature ed eterogeneità tra centri e acuti, e questi ultimi paiono facili e sicuri. Dunque... tutto bene? Forse sì: considerando il livello medio dei cantanti che popola i nostri teatri, uno così è da tenere stretto. Però, dopo poche note, ecco subentrare il "gris". E' una voce grigia, perché ha realizzato ciò che il M° Antonietti definiva: l'omogeneizzazione del difetto. La voce è tutta indietro; non tanto da creare quel rumore tipico dell'ingolamento, non tanto da creare frizioni e gonfiamenti o spinte. Poco, ma sufficiente a togliere proprio la vita, l'anima, a tutta la voce, a renderla uguale, sì, ma togliendo ogni colore, ogni interesse. Forse questo è un dato che può essere legato anche ad aspetti etnici. Indubbiamente gli asiatici sono molto studiosi, precisi e volonterosi, quindi per loro il raggiungimento di un risultato professionalmente valido è un traguardo importante e ci riescono sovente, ma rischiano di avvicinarsi più a "impiegati", modello sì, ma sempre impiegati, del canto. L'italiano sarà percentualmente sempre più difettoso, erroneo nell'esecuzione, oltre che nell'imposto, ma quasi sempre più vivo e comunicativo, meno noioso, ecco! Però questo non deve essere una buona scusa e motivo di orgoglio.

lunedì, agosto 08, 2011

Della Natura

Pubblico un interessante intervento di Angelo Scozzarella, che ritengo utile e interessante pubblicare qui:

"Non è attivando meccanismi difensivi che si serve l'Arte. Oggi ci troviamo in presenza di una arrogante pretesa scientista di appropriarsi di discipline che non appartengono alla scienza e di farlo anche a costo di interventi manipolatori nocivi e funesti. Ecco la questione non è appellarsi alla natura, ma rivendicare con orgoglio l'autonomia dell'Arte. Arte, che vuol dire appunto artificio, ma nel senso di innalzamento oltre l'istinto, di slancio creativo, di trasformazione migliorativa. Questo approccio smaschera l'appello alla artificialità di chi la pensa come manipolazione senza principi e come appiattimento della espressività umana alla fisiologia".

"Il pianto e il riso delle quattro stagioni"

E' il titolo di un bellissimo oratorio di Benedetto Marcello, che consiglio di ascoltare. Ma lo cito, come al solito, per innescare una questioncina in merito alla voce. Sento, sempre più spesso, riferire che nella metodologia di insegnamento del canto di alcune scuole americane, si fa ricorso all'imitazioni di alcune estroversioni di sentimenti quali il pianto e il riso (ma anche peggio, tipo grugniti o pernacchie nasali) che, a detta loro, pongono le corde vocali nel giusto assetto. Ho letto addirittura di una cantante/teorica/insegnante che avrebbe "scoperto" una metodologia del canto rendendosi conto che lei quando cantava... piangeva (bisognerebbe anche sapere cosa provava invece il pubblico uditore...). Ora, se voi provate a fare quel gemito, vi accorgerete che altro non è che un falsetto piccolo; orbene, a che serve "piangere" se altro non serve che a mettere le corde nella posizione del falsetto piccolo, se poi quel suono non è articolabile? Ma di più: che differenza c'è tra un gemito di pianto e il riprodurre la voce infantile? Che la seconda è, invece, perfettamente articolabile, dunque utile all'educazione del fiato, mentre il primo non lo è. Sul ridere poi c'è ancor meno da dire. Dicono che nella produzione del riso (non commestibile!) le corde vengono ripetutamente "sbattute" dal fiato, e questo sarebbe una sorta di antistress, le farebbe rilassare e tonificare. Può darsi, non ho mai approfondito questo tema, ma intanto devo notare che le persone ridono in modi molto differenti, un po' come parlare, e quindi ci sarà chi ride bene e chi ride male (quindi, prima di fare esercizi col riso dovrei verificare se è buono o meno e, in caso negativo, farlo migliorare) e comunque, in genere, mi sembra che il riso prolungato dia mal di gola. Nutro comunque i più forti sospetti sull'utilità artistica di "versacci" che utilizzano suoni in attività particolari e legati alla nostra istintività. Come ho scritto precedentemente, la voce "antica" dell'uomo è difficile da eguagliare a quella "moderna", e ciò che aiuta è l'articolazione e l'espressività, cioè le condizioni che in natura mancano a quel registro.

domenica, agosto 07, 2011

La torre di Babele

Non c'entra nulla con il post di qualche giorno fa con titolo simile.
Prendendo spunto da una discussione su Facebook, parlo di questo argomento forse mai trattato.
Qualche insegnante, e gli allievi a ricaduta, pensa ed è convinto (e convince e/o si convince) che si possa erigere una "torre di fiato" dai muscoli pelvici fino... chissà dove. Come tutte le torri di presunzione, cadrà come cadde quella. Non va bene questa astrazione, o perlomeno va spiegata. I polmoni arrivano fino al diaframma, che si trova entro la cassa toracica. Dunque si e no metà busto. E' quindi, e deve essere chiaro, utile far capire che il fiato, direttamente, non ha niente a che vedere con la "pancia", con il giro-vita, con le reni e con i muscoli pelvici. Con determinate tecniche respiratorie si esercitano pressioni che provocano INDIRETTAMENTE l'avanzamento della parete addominale SUPERIORE, cioè la zona che sta sopra l'ombelico, su per giù. Alcune altre tecniche respiratorie chiedono un arretramento della parete addominale per un presunto "sostegno" al diaframma. In questo senso c'è da chiedersi: perché il diaframma avrebbe bisogno di essere sostenuto, visto che è saldamente ancorato alla gabbia toracica, e non corre alcun pericolo di staccarsi? Allora c'è da chiedersi se alcuni pensano che il diaframma debba alzarsi, e quindi si produca pressione inferiormente per sollecitare e mantenere quella posizione. A parte che solo raramente ho sentito affermazioni simili, c'è da chiedere, in questi casi, in cosa consista lo spoggio. Tornando all'argomento: una torre di fiato grande come il busto è fuori discussione per evidenti motivi anatomici. Allora, mi si fa notare, siccome non siamo fatti a scomparti, e le parti sono collegate, i muscoli pelvici entrano comunque in azione e sono utili alla "tecnica". Personalmente rimango inebetito, perché queste frasi non riescono a sollecitare alcuna riflessione sensata in me. Cosa mai può succedere alla voce indotto da azioni a livello pelvico?. Al massimo, dico provando, una enorme tensione di tutto il cilindro addominale che si ripercuote immediatamente sulla laringe con una costrizione, perché, l'abbiamo scritto anche poco tempo fa, si va a innescare l'istinto dello sforzo, con le conseguenti funzioni valvolari. Il m° Antonietti, scriveva in un appunto: chi fa utilizzare persino i muscoli ventrali nella respirazione vocale, è da considerare un criminale! Purtroppo questi sono i cascami di scuole non recenti, anche se non antiche, ma che da molti vengono considerate tradizionali e quindi corrette, e questo è un brutto argomento, perché se da un lato siamo minati dal pensiero meccanicistico e pseudo scientifico (o scientifico ma inefficace laddove è campo non di pertinenza scientifica), dall'altro abbiamo anche scuole e metodi ormai entrati in una certa tradizione, che si pongono (loro) solo come "integranti" una tecnica antica ritenuta antiquata e insufficiente. L'insufficienza è in realtà nel modo di affrontare l'argomento, nella superficialità e rozzezza con cui si taglia corto nell'educare la voce, solo mediante forza e sforzo. Lì non può regnarvi alcun pensiero sublime.

Suoni piccoli...

Una delle poche cose che Schipa diceva a proposito del canto, altro segno di intelligenza e umiltà, era la sensazione di fare "suoni piccoli che il fiato porta lontano". Per chi raggiunge una certa competenza vocale, queste parole sono illuminanti ed efficacissime. Ma ovviamente possono non dire niente a chi è in "cerca" di un corretto modo di cantare.
Devo dire, pensando alla carriera di Schipa, che ha del miracoloso che lui sia riuscito, specie nei primi anni, a rimanere così impavido di fronte alle lusinghe del palcoscenico, specie in teatri di grandi dimensioni (fino all'Arena di Verona) e vicino a colleghi magari con voci immense. Lui, sempre inflessibile con sé stesso, ha mantenuto sempre quel modo di cantare, con parole piccole, leggere, aeree... Mai un "pompaggio", mai una "spinta" di troppo, mai un "gonfiamento" inopportuno. Anche lui ha commesso errori, questo lo riconosciamo ed è anche normale, ma la cosa fondamentale, che gli ha consentito di cantare bene sempre, è che ha sempre mantenuto quel "calibro" vocale, senza cessioni, che possono anche considerarsi da parte del suo ego. Sì, perché così come l'ego può misurarsi dalla grandezza dell'automobile, o dagli optional del cellulare e così via, si può anche misurare dal "gonfiamento" del suono. La "piccolezza" del suono si può cominciare a misurare dal parlato. Dite una frase qualunque e fermatevi sulla vocale di una parola qualunque. Quel suono, se non avete "barato", risulterà "piccolo". Ma giusto. Lo sviluppo di quel suono consisterà non nel "gonfiarlo", ma nell'intensificare il fiato che lo alimenta, cioè irrobustirlo, anche imparando a rilassarsi. Piano piano, il suono, tutti i suoni, risulteranno proiettati fuori da sé, e da lì si potranno controllare, esattamente come il parlato! Voi il parlato mica lo controllate con il diaframma, con i muscoli o altro, ma solo con la mente. Ecco, uguale! :)

venerdì, agosto 05, 2011

La voce animale 2

Anche sulla base delle domande fatte, ritengo di dover fare qualche ulteriore precisazione sull'argomento.
Abbiamo spiegato che i due registri si presentano come due "meccaniche" diverse. Non c'è alcunché di vocale, di canoro, in questo, ma solo l'apparentamento tra una voce piuttosto rozza, di utilizzo pratico ridotto e una voce molto più ricca di possibilità e sfumature. L'idea di rendere la prima, quella che si trova in zona più acuta (in quanto le maggiori frequenze sono più udibili a distanza e sono più provocanti il sistema nervoso di chi riceve), plasmabile, facile e articolabile come la seconda, è quasi un'idea folle, e possiamo abbastanza toglierci dalla testa l'idea di riuscirci, perché dobbiamo fare i conti con un sistema muscolare assai più teso e una condizione del fiato molto più pressata. Questo però c'entra fino a un certo punto. Infatti l'apparato articolatorio di per sé non cambia nelle varie zone della gamma; ciò che cambia è la pressione dell'aria. La pressione è solo in parte determinata dalla effettiva necessità di vibrazione della corda; come sappiamo, una parte della pressione è causata dalla reazione istintiva del diaframma che vuole "scrollarsi di dosso" il peso del suono; così facendo provoca un surplus di pressione sotto la glottide. Da un lato quindi si dovrà lavorare per ammansire il diaframma (istinto), e dall'altro si dovrà lasciar sfogare la pressione aprendo molto la bocca. Quest'ultima azione va contro l'articolazione corretta, quindi per un certo periodo di tempo pensare di poter parlare in zona acuta sarà velleitario. C'è un altro problema, forse il più delicato e difficile da valicare. Se si prova a parlare, ad articolare con sincerità di intenzione, in zona di falsetto, tutti sanno che il richiamo al registro di petto è fortissimo, tant'è che i cantanti di musica leggera, per cui la parola è indispensabile (come se invece nella lirica non ci fosse questa necessità!), questo fanno. Allora ecco il consiglio che il Maestro Antonietti suggeriva: la voce infantile. Nella donna è alquanto facile e piuttosto spontaneo, perché nella donna il registro di falsetto (fa3-do#4) si può anche definire di voce parlata, anche se negli ultimi decenni la tendenza è a "maschilizzarsi" e dunque a scendere al petto. Nel maschio la voce infantile è meno accettata, dunque più difficile da esercitare (ed è anche più "lontana" dal parlato naturale). Naturalmente è sempre fondamentale l'atteggiamento di volontà intenzionale, sincero, nella pronuncia. Non "cantare", astrattamente, ma "dire" intonando.

giovedì, agosto 04, 2011

La voce animale

Moltissimi animali hanno una voce ma nessuno di essi è in grado di articolarla, non solo per motivi "mentali", ma anche fisici, infatti l'apparato umano si è differenziato da quello delle scimmie e di altri mammiferi, proprio per poter parlare (e questa è una trasformazione che già dovrebbe farci riflettere). La scimmia non potrebbe parlare nemmeno se il suo cervello possedesse questa possibilità. Però il fatto di produrre suoni ha la sua importanza nella vita e soprattutto nella sopravvivenza. Un cane abbaiando ci incute timore, quindi uno degli usi che questo animale fa dei suoni che riesce a emettere è di tipo "offensivo". Poi può "modulare" alcuni altri suoni per richiamare l'attenzione quando sta male, o per manifestare piacere quando vede un suo simile o l'uomo cui è affezionato o quando sta male. Sono suoni "disarticolati", cioè l'apparato oro-faringeo, che è preposto a questa funzione, non permette se non grossolane modificazioni del suono base. La "discesa" della laringe nell'uomo nel posto attualmente occupato, sopra la trachea, ha permesso la nascita e l'evoluzione della voce parlata. Quel suono "animale", povero di articolazioni e piuttosto difficoltoso da "ammorbidire", nell'uomo è continuato ad esistere, si è perpetuato nel tempo, e risulta, a livello di soggetti ineducati, staccato dalla voce parlata, a sè stante, anche se in qualche modo collegato, essendo prodotto dallo stesso apparato. E' quel registro di "falsetto" o "falsetto-testa" che tanti problemi comporta quando dalla voce parlata o di petto vogliamo passare a quell'altra. Quindi a livello iniziale, noi dobbiamo prendere atto che stiamo tentando di unire un tratto di voce "evoluta", articolabile, plasmabile dinamicamente, a una "involuta", molto meno ricca di possibilità nella sua conformazione apparente, e molto più a tinte forti, quindi povera di sfumature. Ci sono in questo anche aspetti di coscienza da non sottovalutare del tutto. Se è vero infatti che siamo sempre alquanto attratti dagli acuti, è assai probabile che in questo ci siano componenti ancestrali. Quando si dà del cane a un cantante, alla fine, non si va poi tanto lontani dal vero, perché è facile che il nostro istinto provi, nel sentire certe emissioni poco curate, quelle sensazioni animalesche di cui quel suono è "erede". E nello stesso senso si possono spiegare quei consigli, che considero orribili, ma comunque comprensibili dopo questa spiegazione, di molti cantanti e insegnanti di imitare gli animali (la mucca, l'asino, l'ululato del lupo...; capitò proprio a me quando entrai al T. Regio di Torino: diversi coristi mi consigliarono, in giorni diversi e senza che gli uni sentissero gli altri, di imitare diversi animali!). Si spiega anche un altro fatto: quando nei primi tempi di studio e senza particolari doti la laringe "schizza" verso l'alto, è sì dovuto alla enorme difficoltà di sostenere il peso del falsetto, ma implicitamente è dovuto al fatto che il suono "animale" veniva prodotto da una laringe posizionata molto più in alto, perché aveva il duplice scopo di chiudere sia l'esofago che l'accesso alle vie nasali. Quindi possiamo dire che la nostra natura, nell'affrontare la zona acuta, va a ricercare le condizioni primitive di emissione, e quindi quella posizione altissima. Dunque, se noi vogliamo poter cantare in modo divino, cioè umano in direzione artistica, dobbiamo fornire a quel settore della voce quelle caratteristiche che in natura non possiede, per cui l'esercizio fatto solo sul vocalizzo è assolutamente insufficiente e inefficace. Ciò che è necessario fare è articolare, quindi parlare, proprio per sviluppare quelle condizioni evolutive necessarie affinché i due registri possano veramente unirsi, altrimenti esisterà sempre una differenza significativa, vale a dire una voce "umana" nel centro e una voce "animale" negli acuti, che non si incontreranno veramente mai, tutt'al più, come capita nei casi buoni, i due registri saranno accettabilmente uniti, cioè ci sarà un passaggio poco avvertibile, ma non una reale unificazione della gamma vocale.