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lunedì, dicembre 27, 2010

Un colpo al cerchio e un colpo... alla glottide!

Bisogna riconoscere che nè il M° Antonietti (che io sappia) né il sottoscritto ci siamo mai soffermati su un punto che è invece presente nel trattato del Garcia, e cioè il colpo di glottide. Il punto è sempre stato liquidato come un "vezzo" dell'epoca, con negatività sul piano dell'emissione corretta e nessun vantaggio. Una riflessione un po' più approfondita, seguita anche a una constatazione e intuizione, mi spinge a fare qualche commento in merito.
Il cd colpo di glottide è una breve apnea con liberazione istantanea della pressione a livello di corde vocali. Anche la H espirata può condurre a un colpo di glottide, ed è una delle ragioni per cui non viene tollerata, aggravata dal fatto che esce una certa quantità di aria insonora, cosa grave perché toglie parte dell'appoggio.
Il colpo di glottide viene usato, più o meno coscientemente, per attaccare alcune vocali di cui si ha scarsa percezione del punto esatto ove iniziare. Ci sono poi consonanti come la C e la G dure che producono effetti simili al colpo di glottide, anche se i punti di attacco sono più alti, tra lingua e faringe. Sono, come si era già accennato, effetti valvolari. Possiamo dire che il c.d.g. nel canto è sempre da evitare: è brutto espressivamente e non giova all'emissione. Quando può essere utile?
Diciamo che ci sono casi in cui è meglio, per pochissimo tempo, "accorciare il tubo". Ad esempio quando, dopo molti esercizi, persiste la tendenza a mandare certe vocali nel naso, il c.d.g. può, spezzando la colonna, portare il soggetto a indirizzare meglio il flusso verso i denti superiori, e percepire il suono più correttamente. Naturalmente è cosa di poche lezioni, dopodiché andrà tolto, e lo stesso esercizio è sempre da svolgere sotto controllo. Altro esempio, in unione con un altro consiglio di Garcia, e cioè la percezione della gola aperta in basso, può essere l'esperienza di qualche c.d.g. per avere la sensazione della gola larga in basso, perché capita abbastanza spesso che con l'idea del suono in maschera, alto, ecc. ecc, ci sia sempre uno stimolo ad "alzare" e quindi un movimento che tende a spoggiare e quindi chiudere la gola. Ripeto che sono questioni delicate e quindi da provare sotto controllo e occasionalmente.

giovedì, dicembre 23, 2010

Ma va...

Alcuni insegnanti, o perlomeno ritenuti tali, insistono con gli allievi che per appoggiare il suono bisogna spingere verso il basso, simulando uno sforzo paragonabile ... all'andare in bagno!! E' uno dei tanti crimini che si perpetrano nei riguardi dei poveri giovani allievi che ritengono validi e padroni della materia tali insegnanti, per la sicurezza che ostentano.
Qualcuno può pensare che sia anche logico che per indurre il diaframma ad abbassarsi, un tale atteggiamento possa avere una qualche utilità. Invece no! E' clamorosamente sbagliato, e sapete perché? Perché questa azione, che rientra pienamente nelle funzioni fisiologiche e istintive, richiama la laringe alla propria funzione VALVOLARE, cioè quest'organo non è più utilizzabile quale strumento musicale, ma compie un'azione di chiusura del flusso aereo in modo che l'aria contenuta nei polmoni possa concentrarsi e aiutare la muscolatura nella propria azione. Infatti nel corso di uno sforzo (anche sollevando un peso, ad es.), la parola è molto più difficoltosa e persino impossibile. In sostanza, quindi, quel suggerimento non solo è sbagliato, ma addirittura controproducente, cioè opposto al risultato che si vuole ottenere, perché aumenta l'apnea e ogni tentativo di parola o canto si trasforma in uno sforzo deleterio.
Per cui, se qualcuno vi da un tale suggerimento, credete a me, mandatelo... a fa' 'n bagno!!!

giovedì, dicembre 16, 2010

Il segreto di Pulcinella (ma neanche tanto...)

Nella Storia del canto di cui abbiamo tracce, credo siano stati davvero pochissimi, poche unità, che abbiano capito realmente (e quando dico capito, intendo fatto, o meglio saputo fare) qual è il "segreto" del grande canto, che come ho scritto è pressoché un segreto di Pulcinella, nel senso che non è niente di trascendentale, ma a parole è quasi impossibile da spiegare. Questo segreto altro non è che... cantar piano. Qualcuno a questo punto già potrebbe aver smesso di leggere! Spero di no. Quando intendo cantar piano, non intendo a basso volume, anche se pure questa è una disciplina fondamentale e indispensabile all'acquisizione del bel canto, ma intendo dire che occorre lasciar scorrere il canto senza premere. Il luogo ove si può dare volume a sazietà, è sulla punta del fiato, che può essere avvertita fuori di noi, se tutto funziona a dovere; ma, appunto, prima bisogna aver acquisito questa forma mentale, che è incredibilmente difficile. L'unico grandissimo cantante che credo sia riuscito, non so in che percentuale dovuto alla scuola e nell'altra alla propria intelligenza e ricerca, è stato Tito Schipa. Io stesso devo dire che se quando faccio lezione faccio quasi sempre esempi perfetti, il che è indispensabile per chi insegna, e solo malesseri o stanchezza possono talvolta scusare la non perfetta riuscita, nel canto vero e proprio posso non raggiungere le stesse quote.
Dunque, indipendentemente dallo spessore vocale che soggettivamente ciascuno esprime, il dato fondamentale che distingue il cantante vero artista dagli altri, è la capacità di far SPANDERE la voce nell'ambiente in cui si esibisce. Se la voce spande, non esiste più grande differenza tra voci piccole e grandi, nel senso che ciascuna dovrà rimanere nell'ambito del proprio repertorio, quindi il leggero canterà opere del repertorio leggero, il drammatico quello drammatico e così via, ma senza pericolo che quello leggero non si senta. E così si spiega che pure Schipa cantò, e più d'una volta, all'Arena di Verona.
Perchè la voce spanda, occorre che l'aria dell'ambiente entri in vibrazione, cioè diventi tutt'uno con l'aria di chi canta. A teatro l'ho sentito tre volte: con Alfredo Kraus, limitatamente ai recitativi dell'opera "La favorita" di Donizetti, nel 1980, Bruson, durante le prove de "i due Foscari" a Torino nel 1984, e Tiziana Fabbricini, alla Scala di Milano nel 1990 e anche in altre prestazioni successivamente.
Qual è il segreto perché ciò possa accedere, oppure: perché ciò non accade sempre?
Come ho già accennato, il dato essenziale è quel "cantar piano". Il Maestro Antonietti aveva scoperto che alla base della voce c'è il canto sospirato. Già questo è un dato che nessuno comprende. Poi nessuno comprende che nella stessa ottica c'è il parlato. Anche miei allievi già consolidati, non sanno passare da una frase parlata a intonata senza modificare sostanzialmente l'emissione. Già solo questo potrebbe risolvere ogni problema, ma sarebbe una scuola troppo dura, non più proponibile con i ritmi del tempo odierno.
Allora il segreto nel segreto, sta in quell' "EFFETTO VALVOLARE", che ciascuno di noi, nessuno escluso, si trova ad affrontare. Per farlo capire meglio mi riferisco quasi sempre alle cinture di sicurezza. La cintura di sicurezza, se voi la tirate piano, si srotola e la potete allungare quanto volete. Se aumentate troppo la tensione, il meccanismo blocca la cintura. E' un effetto valvola. All'interno dell'apparato respiratorio-canoro, abbiamo diversi punti-valvola, ma soprattutto due: la laringe e la zona immediatamente successiva, il punto di congiunzione tra laringe e spazio faringeo. La laringe è essa stessa una volvola. Le pareti elastiche dello spazio faringeo, diciamo più comunemente la gola, sono estremamente sensibili alle modificazioni della pressione aerea e hanno molte possibilità plastiche, dovute anche al meccanismo della deglutizione. Dunque, quando il fiato esce con una pressione costante e moderata, il "tubo vocale" rimane elastico e, se ci sono le giuste condizioni di pressione, può ampliarsi fino alle massime dimensioni possibili (che, ribadisco, non sono raggiungibili con impulsi volontari). Se il fiato non si trova in queste condizioni, ma ha irregolarità di pressione, compie il proprio ruolo valvolare e, come la cintura di sicurezza, blocca, almeno in parte, il flusso, e quindi si perde irrimediabilmente la possibilità di realizzare quell'unificazione con l'aria dell'ambiente. Concludendo: se volete raggiungere l'esemplarità vocale, ma anche, più semplicemente un elevato livello canoro, dovete imparare a far fluire con leggerezza il fiato che possedete. Questo vi darà modo anche di capire che la pronuncia non è un'azione meccanica e fisica, ma mentale, nel senso che riuscirete a immettere nel fiato la pronuncia stessa, come fosse un portato della mente. Quando si avrà consapevolezza che la pronuncia è staccata dal fisico, e quindi come fosse fuori di noi, come se la producesse qualcun altro, si avrà anche cognizione del fatto che può essere ampliata, sviluppata in ogni dimensione, di colore, di volume, di intensità, senza ripercussioni organiche, perché è come se la gola fosse diventato un "tubo vuoto", inerte.

domenica, dicembre 12, 2010

La strada della filosofia

Questo si preannuncia un post molto lungo, forse da suddividere in più puntate. Tutto parte da un libro che mi ha prestato un mio allievo, "il canto dell'essere", di Serge Wilfart. E' un libro che reputo interessante, anche se, come un po' tutti i libri, per la verità, piuttosto inutile per chi cerca orientamenti e suggerimenti sulla giusta strada da intraprendere per ben cantare; lo ritengo più interessante per chi ha già una buona educazione tracciata che per chi è agli inizi, anche se diversi spunti sono comunque utili. Non ho idea se questo insegnante sia riuscito a far ottenere importanti risultati a cantanti lirici; probabilmente ha conquistato la fiducia di tante persone, perché senz'altro il suo modo di pensare e agire può contribuire alla serenità, alla risoluzione di molti problemi psico-fisici. Dico solo, succintamente, che l'autore (belga) si è dedicato al canto, in gioventù, senza porsi troppi interrogativi, che si sono affacciati quando era già in carriera. Ha conosciuto un bravo maestro italiano, che ne ha risolti molti, dopodiché ha contemperato questa scuola con le discipline zen e yoga. Ha raggiunto così consapevolezza di molti nodi che attanagliano l'essere umano, in generale, e chi fa uso della voce in particolare. Peraltro i tempi e gli approfondimenti stessi di questa disciplina, credo che possano persino risultare opposti agli obbietivi di un cantante. Ma questo può essere un dettaglio di scarso interesse. Mentre leggevo facevo delle riflessioni e mi ponevo questa domanda: questo autore non ha capito
quali sono i reali ostacoli che si frappongono alla conquista di un canto perfetto, però le conquiste e i riferimenti filosofici è possibile che portino ugualmente molto avanti; è dunque possibile la conquista dell'Arte, in questo caso fonatoria, solo tramite una disciplina filosofica?
Dunque devo fare un passo indietro. Come ho già accennato qualche post fa, il Maestro Antonietti parlava continuamente di filosofia. E' comprensibile; chi si trova a conquistare qualcosa di assolutamente eccezionale, è fatale che si ponga domande e possa, nella conquista stessa, trovare le risposte. Il M° soleva dire: "ho date testate a un muro per 18 anni, poi, anche grazie all'ultimo periodo con il M° Giorgi, che aveva un imposto fantastico, un bel giorno mi sono trovato al di là del muro!". Trovandosi in quella situazione, non poteva fare a meno di domandarsi perché, ed è riuscito a trovare tutte le risposte, che ha poi faticosamente cercato di infondere nei suoi allievi. Questo aspetto della disciplina in un certo senso è risultato poi rovinoso, perché mettere di mezzo la "Verità", l'Essere, il Nulla, la Perfezione, Dio e il creato tutto, specie se con la disinvoltura con cui lui la propugnava, può guadagnarti simpatie ma anche, più facilmente, accuse di follia, di presunzione, di manie di onnipotenza e via dicendo. Conscio di ciò, quando ho iniziato a insegnare canto, ho cercato di evitare il discorso, e anche quando non ho potuto o non sono riuscito a scansarlo, ne ho dato un rilievo minimo. Mi sono posto, però, il problema di star limitando la portata del mio insegnamento. E' un fatto che non si può raggiungere la perfezione se non ci si crede; è una limitazione al pensiero che ne impedisce l'accesso. Quindi prima o poi devo chiederlo; alcuni, soprattutto persone fortemente credenti, restano perplessi sulla possibile diàtriba che può nascere tra l'accettazione di questa filosofia e il loro credo, che peraltro non sono fortemente in contraddizione.
Ricordo un giorno, studiavo da poco tempo col M° Antonietti, era estate, e alcuni allievi e miei amici proposero di andare a mangiare un gelato. Si andò quindi al dehor di un bar a degustare, e, come accadeva pressoché sempre, il M° cominciò a dissertare di filosofia. Quel giorno ero particolarmente ben disposto, e seguivo con facilità le sue argomentazioni, e lui stesso si accorgeva della mia comprensione; poco più tardi si andò a lezione, e, incredibilmente, tutti ci rendemmo conto che senza esercizi iniziali, la mia voce già era facile e squillante, e fummo tutti d'accordo che quella condizione era favorita dalla discussione precedente. Accadde un'altra volta, ma in quell'occasione la lunga chiaccherata era più improntata a questioni prettamente canore.
Sto parlando da un po' di filosofia, ma sto sbagliando termine. In realtà ciò di cui parlava il M° era gnoseologia (studio della conoscenza). La questione principale su cui si basa tutto l'impianto gnoseologico della nostra scuola, è che nessuna Verità o conoscenza superiore può essere raccolta su un piano esclusivamente teorico. Essa si pone al termine di tragitti operativi. Dunque partiamo sempre dal fatto che qualunque progresso, anche nel canto, deve comunque sempre passare attraverso l'esercizio e la disciplina fisica. E' però interessante notare che Wilfart nel suo libro non accenna mai, o almeno mai in modo conclamato, all'istinto. Però ho scorto nel suo argomentare che in un certo senso è come se lo affrontasse e trovasse le strade per aggirarlo e superarlo, che è esattamente ciò che fa la nostra scuola. Egli lo definisce (mia generizzazione) un altro sè stesso, che crea difficoltà e resistenze, dunque da "uccidere". In questo però sta anche un altro concetto, anch'esso da noi condivisibile, quello dell'ego che impedisce alla coscienza di funzionare in modo traparente (cioè di rivelarsi). Se, dunque, una buona disciplina filosofica può aprire la mente, può far migliorare anche di molto il rapporto col proprio corpo e con i sistemi di funzionamento, mi chiedo se può significativamente far superare quelle barriere, che noi sappiamo essere tremende, poste dall'istinto fisico ed emotivo. Ovvero sia, nel caso di questo autore, stata realmente raggiunta una "UNIFICAZIONE" tra la disciplina spiriturale e quella fisica, tale da permettere il superamento di ogni vincolo di tipo valvolare. Da quanto ho letto direi decisamente di no, però è una strada interessante, che può essere piacevole e istruttiva da percorrere soprattutto da chi non ha particolari velleità di tipo carrieristico.

mercoledì, dicembre 08, 2010

Tempi moderni

Mi viene spesso rivolta la domanda: come mai c'è questa crisi di voci importanti? Come mai una volta c'erano tanti grandi cantanti, oggi è difficile trovarne uno discreto? In genere la risposta è: non ci sono più le scuole di canto. Questa è una verità inoppugnabile, ma forse non è l'unica risposta. L'uomo fa fatica a relazionarsi; non solo c'è lo stress per una vita assurda: traffico, input di ogni tipo da ogni dove, tasse, telefoni, tv, burocrazia, politica, ingiustizie, ecc. ecc. ecc., ma anche sul piano sociale le cose sono davvero cambiate. Nel relazionarsi col prossimo manca la genuinità, la spontaneità, l'essere sé stessi. Troppi modelli, troppo narcisismo, troppa voglia di avere, di essere qualcuno, poco piacere nel dare per il gusto di dare, ma sempre o quasi per ottenere qualcosa in cambio, per diventare "qualcuno", per la fama, la gloria, sia pur per un giorno. Allora, qui non è solo questione di Arte, che per potersi esprimere, come già ho scritto, richiede la purezza, la limpidezza della coscienza, ma di qualcosa di più grave. Il canto, anche a un livello semplicemente buono o discreto, richiede comunque che la persona si esprima, cioè "tiri fuori" ciò che ha dentro, e il canto è lo specchio più profondo di espressione dell'interiorità. Se la comunicazione è difficile, nel senso che la persona non esprime sé stessa, ma al contrario vuol dare una certa idea, irreale, superiore, di sé, il canto avrà due possibilità: o bloccato, con tutte le classiche difficoltà: stecche, disomogeneità, ingolamenti tremendi, oppure,esattamente all'opposto, voci stentoree indomabili, urlatori, fabbri ferrai dell'ugola, perché quel "blocco" o lo si accetta e se ne paga le conseguenze, o lo si vuole sfondare, con le conseguenze opposte. In termini psicologici però i primi saranno frustrati perché subiranno il blocco, i secondi vivranno "eroicamente" la forza con cui si sono liberati (secondo loro) delle catene. Da un punto di vista qualitativo la differenza è minima. Ma ascoltiamo Gigli; nel bene e nel male, noi sentiamo la vera voce di un uomo, non di un divo, non di un superuomo. E lo stesso io percepisco con Caruso e tanti altri cantanti di un tempo, con diverse sfumature, ma sempre di voce "vera" parliamo. Questo non riesco più a sentirlo in quasi nessuna voce degli ultimi decenni. Credo che sotto sotto Bruson l'avesse, io lo sentii cantare in modo spontaneo, e c'era quella voce, ma poi quando andava in scena è come se la voce venisse "filtrata" da un altro sé stesso, meno vero. Discorso analogo per Kraus. Secondo me era questa umanità così diretta e palpabile che faceva andar pazze le generazioni passate, e quindi reputo che anche una scuola straordinaria come la nostra avrà sempre difficoltà a produrre autentici e grandi artisti del canto, perché per superare quella barriera occorre un percorso non solo di apprendimento dell'Arte vocale, ma anche di tipo psicologico, sociologico e soprattutto filosofico, che, comunque, non si sa, nella società attuale, che tipo di risultato possa conseguire. Comunque non perdiamoci d'animo!

domenica, dicembre 05, 2010

Coniugare sopra e sotto

In un tempo piuttosto lontano, usavo dire alle persone che si interessavano di canto e che parlavano ostinatamente o della maschera o dell'appoggio, che il fiato è come la classica coperta, che "se la tiri di sopra ti scopre i piedi, se la tiri di sotto ti scopre la testa". Quando in una scuola si insiste molto nel "tirar su", c'è il forte rischio che la voce si spoggi, o, nel caso contrario, che i centri si "gonfino" eccessivamente, con alte probabilità di ingolamento, di "mangiarsi" gli acuti ecc.
Nel corso dello studio può capitare che per togliere un certo difetto o per migliorare un determinato aspetto vocale, si ometta di insistere costantemente su uno dei due punti di appoggio, anche perché dobbiamo considerare che un appoggio completo ha un costo elevato in termini di impegno fisico e/o di esborso di fiato, quindi se occasionalmente, appunto per circoscrivere un certo argomento o problema, anche l'appoggio non è completo, non è grave, rimarcando però che parliamo di un fatto occasionale.
Ma parliamo di come mantenere "coniugato" l'appoggio diaframmatico con quello palatale. Se emettiamo correttamente una "U", noi di regola abbiamo un appoggio diaframmatico piuttosto consistente, e mantenendo con forza questa vocale con le labbra, dovremmo avere anche un buon appoggio superiore. Ora, se da una U passiamo a un'altra vocale, specie se chiara, ad es. una "I", la prima cosa che capita è di "tirar su" il fiato, ovvero il diaframma. Questo è dovuto anche al fatto che nella I, come nella E, soprattutto quella stretta, la lingua sale e si ha la tendenza a seguire lo stesso movimento. Ora, non è che la lingua non debba sollevarsi, ma bisogna considerare che la pronuncia della vocale non è in zona faringea, ma oltre le labbra. Il che significa che il passaggio dalla U alla I non deve avvenire in bocca, o posteriormente, ma oltre le labbra. Si noterà che la risonanza della U occupa l'intera cavità orale. Un falso istinto induce il cantante a voler mantenere questo "corpo" vocale, e così facendo si produrrà lo schiacciamento della vocale, con prevedibile pessimo effetto. Invece occorre lasciare che il corpo della U svanisca, e la pronuncia della I si possa esplicare sulla "punta" del fiato, oltre le labbra. Non si deve aver paura di perdere sonorità o timbro, anzi, la pronuncia deve essere sempre perfetta, però non è facile, psicologicamente, accettare di ridurre la portata del suono, ma questa è la strada al canto sul fiato, che, dovendo abbandonare la fibra, vale a dire muscoli, fisico, ci mette in ansia e reagisce mettendoci paura e facendoci frenare, bloccare, trattenere il fiato e creando pericolose apnee.

sabato, dicembre 04, 2010

La respirazione artistica "galleggiante"

Vengo quindi ora a parlare di questa ultima e "impossibile" respirazione artistica. Leggo e sento parlare talvolta di un canto "galleggiante". Ammesso che chi ne parla abbia effettivamente percezione di un canto leggero, aereo, "sul fiato", devo precisare che non è la stessa cosa della respirazione galleggiante.
Esiste, dunque, un terzo stadio respiratorio per chi punta alla perfezione vocale. Occorre aver disciplinato lo strumento, inteso come forme oro-faringee, in rapporto all'alimentazione (fiato). Tutta la disciplina si basa sulla possibilità di aggirare e superare l'istinto di conservazione e difesa della specie. Se e quando sarà raggiunto questo traguardo, che, lo ripeto, è da considerarsi quasi un'utopia, noi ci troveremo in una condizione molto particolare in quanto NON E' PIU' NECESSARIO ALCUN APPOGGIO. Spero si capisca la portata di questo concetto, che era contenuta nella premessa all'argomento, tre post fa. Se non c'è più necessità di appoggio, significa che il fiato non ha più altra necessità, nel senso che non è più vincolato alla condizione di mantenere abbassato il diaframma, perché rimarrà abbassato con la semplice quantità di aria presente nei polmoni, diciamo col cosiddetto fiato di riserva (ricordiamo che il diaframma si rialza in parte per la normale azione muscolare di rilassamento, ma, in maggioranza, per l'azione dell'istinto che "ordina" a questo potente muscolo di sollevarsi per esplerre l'aria). L'erezione del torace, che non deve mai venir meno, nel senso che il petto deve sempre stare "su", permetterà quella postura diritta che svincolerà totalmente il fiato dall'azione valvolare (quindi sarà venuta meno anche il 90 e più percento di pressione sottoglottica). Questo darà piena libertà alla laringe, che a questo punto si sarà trasformata in perfetto e delicato strumento musicale.
Se la respirazione diaframmatica, il primo "stadio", poteva farci ritenere il serbatoio respiratorio come un "pallone rotondo", il secondo e a maggior ragione il terzo stadio, portano il serbatoio a una forma di "pallone ovale", posto a livello dei capezzoli e fino ai muscoli ascellari.
Alla maggioranza di chi legge non sfuggirà, penso, il limite di un possibile problema che viene posto in qualunque trattato di canto, e cioè la vicinanza tra questo tipo di respirazione e la cosiddetta "clavicolare", da tutti ritenuta insufficiente e pericolosa. La respirazione clavicolare, detta anche "apicale", è una respirazione che sfrutta più intensamente la parte alta del polmone; essendo il polmone vagamente piramidale, la parte alta è costituita da "punte", che, come si può bene immaginare, contengono poca aria, e soprattutto hanno poca possibilità di agire sul diaframma. Molto erroneamente, molti teorici riferiscono che questo tipo di respirazione veniva praticato anticamente, quando le donne portavano il busto. Non possiamo del tutto controbattere questo assunto, ma mi permetto di affermare che in grandi scuole come quella del Garcia, dove c'era la Malibran, non si potessero compiere errori di tal gravità. L'opinione mia e già del M° Antonietti è che in realtà lo studio avvenisse senza busto e costrizioni particolari, per cui il fiato aveva la possibilità di un normale e corretto sviluppo e che al momento della grande carriera le buone cantanti potessero già utilizzare una respirazione toracica, che, se pur non ottimale, potesse per altro produrre un canto di alta qualità.
Per concludere, in sintesi, quindi diciamo che nella respirazione "galleggiante", non c'è solo più il cosiddetto "canto sul fiato", cioè la parola sopra il fiato, che è già un risultato straordinario e ignoto a praticamente tutti i cantanti oggi noti, ma che il fiato stesso possa "galleggiare" sul diaframma, non essendoci necessità di alcun tipo di appoggio, né sul diaframma né su alcuna parte del torace. E' sufficiente (si fa per dire) la perfetta erezione della persona, grazie alla piena, consapevole e continua erezione del torace, che non deve mai "ricadere". Il M° Antonietti, quindi, definiva "divini ladri" i superbi cantanti dell'epoca barocca, tra i quali i castrati, che non avevano necessità di grandi esborsi d'aria, ma potevano giocare su fiati brevi e rubati, che non intaccavano mai la riserva.
Ho scritto tutto ciò più per un dovere di informazione che per necessità disciplinare, perché, lo dico ancora una volta, è uno stadio a cui quasi nessuno (il quasi è una speranza) può pensare (ed è pericoloso pensare di farlo anche solo per prova) di avvicinarsi, e mai e poi mai se non c'è stata a monte la lunga e sofferta disciplina di superamento di ogni istinto che contempli la respirazione quale necessità esistenziale.

mercoledì, dicembre 01, 2010

La respirazione toracica

Nei suoi scritti il Maestro Antonietti si è sempre espresso nei riguardi di una respirazione "artistica", conclusiva di un lungo periodo di apprendimento, culmine di un percorso disciplinare. Personalmente ho sempre evitato questo argomento, al massimo sfiorato, perché lo ritengo talmente difficile da raggiungere da essere considerato impossibile. Comunque prima di arrivare a questo concetto vediamo qualche altra considerazione respiratoria.
Per prima cosa posso affermare che se non esistesse la reazione di difesa istintiva, qualunque cantante potrebbe tranquillamente adottare una respirazione toracica senza problemi. Il motivo per cui in quasi tutte le scuola prevale la respirazione diaframmatica o costo-diaframmatica, per quanto inconsapevolmente, è dovuto a questo problema. Però dobbiamo fare un'osservazione: nella respirazione diaframmatica, la gabbia toracica non è quasi per niente coinvolta, e lo è poco anche in quella costo-diaframmatica. Questo fatto non è senza conseguenze. Quando il diaframma scende, grazie ai legamenti all'ossatura toracica, porta la gabbia stessa a chiudersi, avvicinarsi, infatti si noterà che durante la estroflessione della parete addominale, il torace si deprimerà. Questo è necessario in quanto saranno le costole stesse e la muscolatura intercostale che andranno a premere sui polmoni per estromettere l'aria. Dall'altro lato la potenza del diaframma completamente abbassato fornirà all'aria stessa quell'energia necessaria per un canto di qualità. Dobbiamo osservare, però, che se la gabbia toracica è già depressa in partenza, ci sarà poco spazio perché le costole possano premere sui polmoni. In un certo possiamo dire che la respirazione è incompleta. Dunque, il secondo stadio respiratorio durante lo studio, vale a dire quando le reazioni istintive saranno più contenute (naturalmente dobbiamo riferirci a uno studio dove questo obiettivo viene perseguito coscientemente), sarà quello di una INTEGRAZIONE respitoria. Infatti noi consideriamo la respirazione costale non una diversa modalità respiratoria rispetto la diaframmatica, ma una sua integrazione. Qual è il senso di questa integrazione? E' di tre tipi: uno: la leggera depressione della parete addominale, che non significa far rientrare la cosiddetta fontanella dello stomaco, è che in questo modo il busto, o torso, si erge diritto. Nel momento in cui il busto è ben diritto, scarica interamente il proprio peso sulla colonna vertebrale. Questo è un fatto FON-DA-MEN-TA-LE! Il fiato, oltre che di scambio gassoso, si occupa di mantenere eretto il busto a integrazione della muscolatura della schiena. Se la postura è corretta, al fiato viene tolta una mansione istintiva, cioè sarà maggiormente libero di "occuparsi" dell'azione fonatoria. Secondo: sarà possibile riempire meglio i polmoni; terzo: ergendo molto di più il torace, si avrà un sollevamento cospicuo delle costole, le quali, per gravità e per azione degli intercostali, potranno agire più efficacemente nell'azione espiratoria. Quindi miglior risultato con minore fatica. Questo è un tipo di respirazione che si può utilizzare dopo qualche tempo di studio e che, per successivi miglioramenti, può garantire eccellenti prestazioni professionali anche per l'intera carriera.

martedì, novembre 30, 2010

Del respiro 2

Come ho più volte scritto la nostra scuola è fondamentalmente contraria all'insegnamento per sensazioni; per altro anche io non è che sono un "talebano" e censuro sempre ogni riferimento astratto, qualche immagine la suggerisco di quando in quando, a patto di spiegare sempre qual è l'obiettivo concreto da realizzare, e a cosa mira questo pensiero. Dire agli allievi di mandare l'aria fino in fondo alla schiena, facendo credere che i polmoni arrivino fino alle natiche, è sbagliato. Dire di immaginare di mandare l'aria il più in basso possibile può anche essere accettabile, a patto sempre di spiegare che in realtà i polmoni finiscono molto più su! Il motivo è quello di cercare di riempire il meglio possibile i polmoni soprattutto nella parte bassa, a contatto col diaframma. Bisogna anche ricordarsi, però, che il polmone è grande e non c'è solo la parte bassa; anche la parte media e alta va utilizzata e possibilmente sviluppata, quindi l'indicazione iniziale va bene per chi inizia lo studio del canto e per i primi mesi, anche un anno o più, se è il caso, ma quando le cose cominciano a andare bene sarà necessario cominciare a integrare questo tipo di respirazione con la cosiddetta "costale" che permette un utilizzo più completo di questo organo.
Abbiamo già spiegato in varie occasioni che il motivo per cui è bene iniziare da una respirazione cosiddetta diaframmatica consiste nel fatto che in questo modo la pressione del fiato può agire sul diaframma e mantenerlo basso sopportando la reazione istintiva ma senza stimolare ulteriormente il suo sollevamento con la pressione dell'intestino.
Quando il diaframma si abbassa comprime lo stomaco e l'intestino. Se la parete addominale è "molle", cioè non viene tenuta in tensione, la pressione ricevuta si riflette con la tipica "pancia in fuori". A questo punto è bene evitare, nell'allievo alle prime armi, di irrigidire subito la parete, perché altrimenti la pressione esercitata sull'intestino si rifletterebbe sul diaframma, che subirebbe una pressione dal basso verso l'alto, che noi non vogliamo perché provoca lo spoggio del suono.
Prima di proseguire, sarà bene dare un'altra informazione anatomica. Polmoni e diaframma non sono organi "tutti d'un pezzo". Non solo i due polmoni non sono identici e il diaframma un unico muscolo, ma quest'ultimo è propriamente costituito da diversi settori che hanno la possibilità e la capacità di compiere movimenti indipendenti. Ad esempio una mia recente analisi mi ha fatto scoprire che se respiriamo solo dal naso, non solo avremo una ridotta immissione d'aria, ma anche nel caso in cui si faccia una inspirazione molto lenta e lunga, avremo solo l'abbassamento della parte anteriore del diaframma, mentre la parte posteriore si abbasserà più facilmente, rapidamente e completamente con la respirazione naso-bocca.
Detto ciò: con la respirazione diaframmatica, il diaframma, per minor resistenza degli organi premuti e maggiore elasticità degli agganci alla gabbia toracica, tenderà ad abbassarsi maggiormente nella parte anteriore, che diventerà particolarmente prominente, ma in realtà il volume spostato dal diaframma non è così elevato, è solo un effetto. In questo modo possiamo dire che il "pavimento" dei polmoni risulta, grossolanamente parlando, piegato in avanti. Se si tende leggermente la parete addominale anteriore superiore, il tronco si raddrizza e anche il diaframma offrirà l'intera superficie al supporto dei polmoni. Sia chiaro che non parliamo di 'depressione' della parete addominale, ma solo di leggera tensione. Questa situazione comporterà un più efficace sostegno del fiato e minore fatica, e parliamo, sostanzialmente, di una respirazione costo-diaframmatica. Nei momenti di necessità di maggiore impegno vocale, ad esempio sulla nota di passaggio, sarà possibile apportare qualche energia in più con un maggiore impegno nella muscolatura del plesso solare. Nel momento dell'impegno, se il "polo" superiore è ben appoggiato al palato superiore (o alle labbra), questa azione non comporterà un rischio di sollevamento del diaframma, anzi, esso avrà facilità di discesa nella sua interezza.
Quindi non siamo ancora arrivati a parlare di una respirazione toracica...

Del respiro



Ho parlato spesso di respirazione, ma è un argomento su cui preferisco andar cauto perché foriero di confusioni anche molto pericolose.
Ho inserito quest'immagine per indurre una riflessione. Molti insegnanti insistono molto con gli allievi affinché la respirazione venga fatta profonda, coinvolgendo il "fondo schiena" e la pancia. Orbene la prima riflessione è: perché si insiste in tal senso, visto che i polmoni occupano lo spazio fino al diaframma, cioè relativo alla gabbia toracica? Più d'una persona cantante o allievo ecc. proveniente da altre scuole è rimasta meravigliata di fronte a questa, in fondo semplice, constatazione. Da qui vedremo di fare riflessioni, sempre molto caute...

domenica, novembre 28, 2010

La mandibola controllata

Qualche antico maestro di canto suggeriva agli allievi di rilassare la mandibola al punto di poterla definire "mandibola a ciabatta", cioè del tutto abbandonata. Può essere un esercizio di rilassamento, ma nel canto non è un suggerimento opportuno, perché se ne perde il controllo. Per altro c'è da fare un commento ulteriore al post precedente sulla bocca intonante, che peraltro mi pare di aver già scritto in passato, ma come diceva sempre il mio Maestro, ripetere fa bene. Dunque quando si passa da vocali strette e chiare come la I e la E "a sorriso", a vocali più ampie come la A, e dunque si debba necessariamente aprire molto la bocca, c'è il serio rischio che il suono cada, in quanto il flusso aereo segue la discesa della mandibola. A questo proposito due consigli, che sarebbero peraltro sempre da fare sotto controllo: 1) nel passaggio dalla I alla A non pensare alla discesa della mandibola ma al palato che si alza; 2) provare a passare dalla I alla A senza abbassare la mandibola. All'inizio risulterà una forzatura estrema, perché non si concepisce di alleggerire (cosa che deve avvenire anche nel caso 1), ma poi si riuscirà. Una volta attenuta la A a bocca semichiusa, piano piano aprire, facendo in modo di non modificare alcun parametro del suono ottenuto. Riprovare, ottenendo subito lo stesso suono ma aprendo anche subito la bocca.

giovedì, novembre 25, 2010

A ciascuno il suo

A ennesima riprova di quanto già è stato scritto in passato sull'inesistenza sostanziale di un "metodo", soprattutto se inteso come manuale scritto, notavo e facevo notare in questi giorni ad alcuni miei allievi di come ho dovuto operare in modo sostanzialmente diverso passando dall'uno all'altro. In alcuni casi è necessario insistere sulla voce piena, sul parlato ostinato, in altri casi sull'alleggerimento estremo, in altri ancora su specifiche vocali...
Non può esserci un sistema di riferimento tecnico uguale per tutti, perché a seconda del punto educativo in cui ciascuno si trova, avrà necessità di determinati esercizi, e troverà maggiori difficoltà in altri. Sia chiaro, a scansi di equivoci: non sto dicendo che ognuno ha bisogno di cose diverse perché siamo diversi! In quel senso no, allora potrei dire, pur trovando superficiale questa affermazioni, che la tecnica è una sola e uguale per tutti. Però è il momento psico-fisico che è sempre diverso, e non conta solo se studia da un giorno, un mese, un anno, ecc. ma di un insieme di elementi che mettono in relazione il vissuto con le personali dotazioni e con la sfera cognitiva, nonché, non dimentichiamo, con l'intelligenza. Molti cantanti, pur non avendo uno studio straordinario alle spalle, hanno fatto carriere strepitose grazie all'intelligenza: in primis direi Domingo, ma anche la Callas. Schipa è un esempio di fortunata coincidenza di uno studio ottimo con grande intelligenza. Ovviamente dove c'è l'intelligenza c'è anche un grande passo avanti sul piano stilistico e interpretativo.

domenica, novembre 21, 2010

La bocca intonante

L'ampiezza orale è direttamente responsabile della corretta intonazione. Il fiato che mette in vibrazione le corde vocali, tese nella misura relativa all'altezza del suono e del colore che si intende produrre, deve trovare un adeguato spazio ove "sfogarsi". Se la bocca non è sufficientemente aperta, l'eccesso di fiato che non riesce a riempire la forma, si comprimerà in zona sottoglottica, premerà quindi contro le corde vocali e produrrà suoni difettosi, probabilmente crescenti. Per cui se sentite che state stonando, nonostante l'orecchio sia valido, come prima misura correttiva aprite maggiormente la bocca. Se la bocca è eccessivamente aperta, non corrette un rischio opposto, tutt'al più il suono risulterà un po' soffiato, poco netto.

sabato, novembre 20, 2010

Il muscolo virtuale

Poco fa stavo rispondendo a un "fuoco di fila" di domande di un mio allievo, e con la solita volontà di trovare sempre frasi utili a spiegare i concetti che stanno alla base del grande canto, mi è venuta questa frase: "noi trasformiamo il nostro fiato in un muscolo". E' una frase davvero fortunata, che non avevo ancora escogitato, nonostante il suo senso sia sempre nelle mie dichiarazioni.
Dunque, noi sappiamo che la cosa più difficile nell'educazione del fiato, è l'eliminazione della componente muscolare faringea, che interviene, direttamente o indirettamente (stimolata dalla reazione dell'istinto, e quindi dal sollevamento diaframmatico indotto) nella fonazione a compromettere l'ampiezza e la scorrevolezza dell'emissione. Fiato e diaframma, nel canto, diventano tutt'uno. Non si può parlare di fiato come di qualcosa a sè stante, giacché a noi non interessa: l'aria è una componente che fisiologicamente non ha qualità utili per il canto. Ciò che rende importante il fiato nel canto è il diaframma, così come per un violinista non è l'archetto in sè, che è immobile, ma il braccio che lo muove. Dunque il diaframma, se opportunamente e artisticamente educato, dona al fiato quelle qualità che lo rendono archetto perfetto di uno strumento che diventa a sua volta perfetto. Questa trasformazione, possiamo anche dire che rende il fiato un "muscolo", ovviamente virtuale, che prende il posto della muscolatura reale della zona glottica, che deve invece essere abbandonata (parola pericolosissima, mi rendo conto, ma non sostituibile), per diventare "tubo vuoto", passivo, elastico e plasmabile proprio dal "muscolo-fiato", che possiede, se lasciato lavorare, tutte le qualità per poter costruire quello strumento perfetto da tutti agognato.

La Verità

Sono spesso tentato dall'entrare nel campo filosofico, su cui il Maestro Antonietti ci fece "na capa tanto", ma a ragione, perché l'Arte E' filosofia, e non si può sperare di entrare nel regno dell'Arte senza porsi interrogativi e andare a cercare risposte. Il Maestro, anche per questo, fu ignorato, nel migliore dei casi, ma anche combattuto, considerato un pazzo, un visionario... ma egli non smise mai di occuparsene, prima di tutto perché aveva sofferto duramente per arrivare a quelle risposte, e inoltre non poteva accettare il compromesso, il nascondere fatti per il quieto vivere, essere "modesto"... questo lo ha reso anche poco popolare tra alcuni allievi, che una volta recuperati da situazioni anche spaventosamente negative, hanno anche fatto carriera e nei loro curricoli non v'è traccia del nome di colui che ha salvato loro la voce... e forse anche la vita (se non fisicamente, perlomeno psicologicamente). L'aspetto sempre inquietante delle filosofie riguarda il concetto di "Verità", che non può non essere affrontato, se si vuole entrare a fondo nella materia. Ma io adesso evito l'argomento, come l'ho quasi sempre evitato con i miei allievi, perché non voglio creare difficoltà e imbarazzi; l'essere allievo di un grande maestro dà parecchi vantaggi: non essere lo scopritore di una Verità, ma esserne "solo" l'erede, non rende così necessaria la diffusione di ogni recondito particolare. Resta il fatto, e vedremo a suo tempo se sarà necessario, che se un cantante vuole davvero raggiungere la vetta, dovrà per forza passare anche dall'aspetto filosofico.
Dunque qual è il senso di questo post? C'è un concetto di verità più semplice, almeno apparentemente, che un po' tutti, con un certo impegno, possono provare a percepire. Ascoltate il suono di un cantante, e provate a chiedervi se quel suono è "vero". Io ormai ho le orecchie super allenate, d'accordo, ma quante volte con i miei allievi arrivo a dire: ecco, questo è un tuo suono "vero"!, è parte di te, giunge dal tuo "cuore" (non in senso romantico - potremmo dire anche dal tuo interno, dalla tua sfera emotiva...), e non ha nulla di costruito, di artificioso, di incrostato, ecc. Ancora di più. Ascoltate una parola o breve frase di un cantante, e chiediamoci se quella parola o frase è stata pronunciata (pur nel canto) con verità! cioè se mi arriva il significato. Questo è l'obiettivo supremo e mirabile di un grande canto-cantante.
Non ci sono i codici per poter postare qui il video di Schipa che canta Le violette. Andate a sentirlo su youtube, http://www.youtube.com/watch?v=ahvMqNOJjZc&feature=fvsr, anche solo il primo minuto, e poi confrontatelo con la stessa aria cantata da Alfredo Kraus: http://www.youtube.com/watch?v=-UjZn0upxZs&feature=related. Kraus è stato un grandissimo cantante, molto bravo proprio nel canto a fior di labbro. Eppure... sentite che nell'espressione non c'è la stessa "verità"? E' come se Kraus pensasse "a sè stesso", o è come se dicesse: sentite come canto, sentite che bella voce, eccomi, io sono qui... ecc. ecc. Schipa sta negando ste stesso, diventa tutt'uno con ciò che sta cantando, non c'è narcisismo, non esiste più l'aspetto materiale, estetico, costruito di un mondo reale, ma siamo a livello spirituale, astratto, unificante (giacché la Verità unisce gli spiriti, non divide!).

sabato, novembre 13, 2010

Altro esempio

Qui si può ascoltare un esempio forse anche più chiaro del precedente. E' il tenore La Scola nell'aria "e il sol dell'anima" dal Rigoletto, edizione dir. da R. Muti. Il tenore, qui ancora piuttosto giovane, non è a suo agio nel settore acuto, e lo si sente su un po' tutte le note più alte. Però è molto evidente che quando la frase musicale si "arrampica" decisamente sulle vette, la gola diventa una "cannuccia" e il suono risulta molto stridulo, perde colore e facilità, e si avverte uno squilibrio anche di tipo fisiologico, per cui ci sono come piccolissimi "singhiozzi" che denunciano la carenza d'appoggio. Il fiato-diaframma dovrebbe possedere l'energia per alimentare tutti i suoni nella gamma di un cantante completo. Quando l'energia è insufficiente, può accadere che il suono: 1) si ingoli, 2) si stringa 3) vada indietro 4)"stecchi". L'ingolamento permette al soggetto di appoggiare una parte del suono sulla muscolatura faringea. Questo imbruttisce e limita la sonorità, che però alle orecchie di molti risulterà ricco perché il suono prenderà risonanze tipicamente gutturali, brutte per molti, ma non per tutti. Però questo permette anche di mantenere una parte di risonanze e armonici della cosiddetta "maschera" e la gola può mantenere una discreta ampiezza. Nel secondo caso, cercando di evitare la gola, ma non avendo l'educazione per mantenere l'appoggio corretto e completo, la gola si stringe. Per la verità anche questo può definirsi un suono ingolato, però qui prevale il senso di un suono che perde ampiezza, sonorità, bellezza e ricchezza, e mette a disagio l'ascoltatore, perché risulterà invece povero, stridulo, "impiccato". In altri casi la "stampella" alla carenza d'appoggio può consistere nel lasciare che il suono vada indietro, cioè perda la posizione d'appoggio dietro ai denti anteriori superiori. Il suono risulterà opaco e povero. Anche questo è un suono ingolato, ma meno evidentemente. Quando l'appoggio risulta decisamente precario, subentra la stecca.

http://ultrashare.net/hosting/fl/fa4ff9f65a/14._E_il_sol_dell_anima..._Che_m_ami,_deh_ripetimi

sabato, novembre 06, 2010

Un esempio

Un esempio di voce complessivamente "stretta" (a parte le storture di pronuncia, che non ritengo dovute alla lingua madre del cantante), e il ricorso rapido, sull'acuto, alla I, più sonora nella "strettoia" della A. Si ascoltino in particolare le E, ma anche le O basse (le A poi spesso sono quasi delle O). Peraltro da notare che il cantante cerca la pronuncia con le labbra, ma il suono non può venire avanti perché la gola è molto rigida. Ecco dunque la necessità sempre del rilassamento in tutta la parte di apparato posteriore alle labbra.

Il tubo spezzato

In passati post ho paragonato il percorso del fiato vocale a quello di un tubo per innaffiare. Nell'esaminare l'affinità tra le due situazioni, facevo notare che se noi modifichiamo il "calibro" del foro d'uscita dell'acqua, per esempio con un dito, noi andiamo anche a modificare indirettamente la pressione interna e quindi anche il risultato esterno, perché se il foro d'uscita viene ristretto, la pressione aumenta e l'acqua fluirà più lontano, mentre se allarghiamo il foro, la pressione diminuisce e l'acqua cadrà più vicino. Quindi, se noi teniamo le labbra più strette ne conseguirà un aumento di pressione, più appoggio e una più ampia proiezione del suono nell'ambiente; se le labbra vengono abbandonate, la pressione diminuirà e il suono non riempirà la sala ove ci si esibisce. Questo paragone è utile anche per spiegare un altro fenomeno (difetto) molto diffuso, al punto di sembrare quasi la normalità, anzi un pregio: il suono "stretto". Ascolto spessissimo soprattutto tenori che al momento del passaggio STRINGONO il suono. Questo trucchetto consente di ottenere un suono più squillante, ma anche ingolato, quindi aspro, meno realmente appoggiato, ma che a molte persone piace. Questo fenomeno come si può spiegare? Ricorrendo sempre all'esempio del tubo, potremmo paragonarlo a una piega nel tubo. Se io piego quasi a 90° il tubo in un punto qualsiasi, otterrò nuovamente un aumento di pressione nella parte di tubo posteriore alla piega, però nella zona anteriore l'acqua subirà un'accelerazione e quindi l'effetto è simile a quello precedente. Ovviamente le differenze ci sono: nel primo caso io avrò una pressione costante in tutto il tubo, tutta l'acqua portata del tubo viene emessa con maggiore pressione; nel secondo caso la pressione riguarderà solo l'acqua nella porzione di tubo che va dal rubinetto al punto della piega (quindi dal diaframma al faringe, che è il punto della "piega"). Il tubo piegato comporterà, a fronte di un aumento della pressione, una diminuzione della quantità di acqua sotto pressione; nella voce comporterà in primo luogo una deformazione della pronuncia della vocale che si vuole dire, in secondo luogo una diminuzione della quantità di fiato-voce emessa, che avrà sì pressione, ma apparirà più striminzito, avrà minore portata, ampiezza, e non sarà omogeneo con il resto della gamma.
Nelle donne questo fenomeno è più presente, invece, nelle note basse. Siccome molti insegnanti sostengono, ahiloro, che il petto non fa bene, e soprattutto i soprani non dovrebbero usarlo, quando si trovano delle note centrali, sotto il re3, per non passare di petto, sono costrette a "stringere", per poter continuare a mantenere pressione e un po' di timbro (di gola, peraltro) e sonorità. Ovviamente sono suoni orribili!!

mercoledì, ottobre 20, 2010

Fiato ed emozioni

Fra le tante complicazioni e contraddizioni che osserviamo nell'educazione del fiato, ce n'è una che merita approfondimento. Nei primi approcci al canto noi ci soffermiamo sul fatto che l'istinto reagisce al tentativo di modificazione dello stesso (per farlo diventare "archetto" dello strumento vocale) mediante una maggiore attività espiratoria del diaframma. In parole povere, dopo pochi secondi dall'inizio di un esercizio o frase cantata, il diaframma comincia a "spingere" affinché i polmoni si svuotino. Da qui la pressione verso la laringe, che si innalza oltre misura, il blocco mandibolare, la voce nasale e così via. A un certo punto però noi cominciamo a dire: spreca fiato, soffia via, non trattenere. Cioè assistiamo a un fenomeno che appare opposto alla spinta e allo svuotamento dei polmoni, ed è un tentativo di mantenere aria all'interno, di conservarla e quindi di trattenerla. Questo non provoca probemi fisici ma di qualità del canto. Ma a cosa è dovuto? Possiamo dire sempre all'istinto (te pareva...), ma tramite un altro meccanismo che gli appartiene: le emozioni. Come mi pare di aver già scritto in passato, il centro degli istinti di conservazione e difesa, sono gli stessi delle emozioni, e infatti a un certo punto, quando l'emissione comincia ad essere valida, capita spesso che l'allievo sbagli per timore di far qualcosa di eccessivo, di sconosciuto e quindi di sbagliato. E' normale: ci si avventura per una strada sconosciuta, e quindi l'istinto provoca le stesse emozioni come se ci si trovasse soli su una strada deserta senza indicazioni. Ora una constatazione, scientificamente provata, facilmente constatabile da chiunque, è che le emozioni, specie alcune, provocano un blocco, un trattenimento, una diversa gestione del fiato. La paura provoca rallentamento e anche blocco del fiato, in quanto lo stesso "rumore" del fiato potrebbe rivelare la nostra presenza, quindi l'istinto permette (e anzi stimola) questo meccanismo apparentemente contraddittorio. Naturalmente la paura ha diversi stadi; nel caso nel canto non possiamo parlare di terrore, e nemmeno di una vera e propria paura, ma di timore, di insicurezza, che, proporzionalmente, non bloccheranno il processo espriratorio, ma ne rallenteranno e/o renderanno discontinuo il funzionamento. La soluzione non è semplice. Già conoscere queste nozioni può essere utile. Fare esercizi per rendere fluida e ininterrotta l'espirazione (anche senza il canto) può indurre maggior sicurezza e allentare via via il senso di timore.

lunedì, ottobre 18, 2010

La Natura che muta.

Ricordo che molti anni fa Giulietta Simionato rispondeva in un'intervista alla domanda sulla carenza di nuove grandi voci con l'affermazione che il genere umano sta mutando, e di conseguenza le voci. E' vero. Ci sono almeno due fenomeni da considerare: 1) il fatto che in genere il molto minore uso del fisico per lavorare ne ingentilisce e affina la muscolatura, 2) l'alimentazione ha indotto lo sviluppo verso una crescita in altezza assai notevole. Questo ha inciso sulla vocalità, perché anche laringe e corde vocali si sono assottigliate e allungate. Poi non è da sottovalutare l'impatto ambientale e le necessità di relazione. Oggi la comunicazione telefonica o con altri mezzi ha diminuito la necessità di parlare ad alta voce. Come tante cose del passato, sarei curioso di sentire come parlavano gli antichi romani, specie gli arringatori, i condottieri... E forse ancor più i Greci, che avevano fatto studi importanti sulla voce. A proposito di mutazione, poi, dobbiamo mettere anche un altro fattore in conto: la donna, nella sua evoluzione culturale e sociale, parla oggigiorno quasi sempre e solo di petto, mentre credo di poter affermare con una certa sicurezza (anche il Garçia ne accenna) che un tempo il registro comune di voce parlato della donna era il falsetto. Questo un tempo rendeva più facile l'educazione vocale, perché oggi un problema diffuso è proprio dovuto allo "scalino" tra petto e falsetto e alla difficoltà di irrobustire il falsetto. Purtroppo ai mutamenti apportati dalla Natura non abbiamo mezzi per contrastare, anche ammesso che lo si volesse; se però, come auspichiamo e crediamo, la Natura sa mantenere i propri equilibri, non abbiamo molto da temere, perché gli apparati saranno sempre in grado di esprimere una vocalità esemplare, laddove sapientemente guidata. Magari saranno sempre più rare le voci grandi e molto sonore, ma come ogni passaggio evolutivo potrà essere assorbito da nuovi interessi e nuovi obiettivi. Ciò che conta è mantenere vivo il rapporto con l'Arte.

La voce "falsa"

Qualche giorno fa, su segnalazione di un amico in internet, ho ascoltato un soprano non malvagio, dotato di discreta pronuncia e accettabile sul piano del fraseggio. Dove stava il problema? Immediatamente appariva una voce "falsa", cioè quella condizione vocale che agli antichi fece intitolare "falsetto" la gamma di suoni tra petto e testa, che dà la sensazione di essere vuota, priva di corpo, di pienezza. Sono suoni che si possono anche accettare in chi inizia lo studio del canto e anche dopo qualche mese; non si può tollerare in chi già canta professionalmente o quasi. Il termine deriva dal fatto che manca l'appoggio. Purtroppo questa condizione, che sente anche piuttosto bene chiunque (magari senza capire bene qual è il difetto), porta a errori gravi: ingolare, per dare un'apparenza di timbratura e corposità, il vibrato volontario, in quanto la voce con poco appoggio resta più fissa e ha un timbro immaturo (per alcuni questa si definisce voce "naturale"; è una sciocchezza, è una voce non sviluppata, che è ben diverso concetto!). Naturalmente ci si deve chiedere: come fa a cantare in questo modo? Ecco, questo modo di cantare si basa su un lieve appoggio in gola. Non è un ingolamento vero e proprio, per cui la voce non risulta artefatta e dura, non schiaccia verso il basso, per cui c'è una parvenza di morbidezza e la possibilità di fare dinamica e pronunciare decentemente. Non c'è intensità, per cui dobbiamo pensare a voci già naturalmente ben messe, e con acuti poco sicuri. Ciò che appare piuttosto evidente, comunque, è quel senso di voce "per aria", come se non avesse un "sotto", come, per l'appunto, se non appoggiasse su niente. Sento talvolta persone che parlano così...

domenica, ottobre 17, 2010

Dalla Russia con amore

Leggevo tempo fa che il M° Melocchi avrebbe elaborato la teoria dell' "affondo" dietro indicazioni di un cantante russo. E' un'ipotesi, che personalmente ritengo assai probabile, perché stavo riflettendo sul fatto che la Russia è anche la patria dei "contro-bassi", cioè quei cantanti, presenti pressoché solo presso cori popolari, che esercitano il proprio dominio vocale soprattutto nella zona gravissima della voce, anche al di sotto del do1. Orbene questo modo di cantare è dovuto ad un uso particolare della laringe (ne parla anche Garcia), che assume una posizione altissima all'interno del faringe. Questo è spiegabile col fatto che le corde vocali in zona ipofaringea non hanno più spazio di vibrazione, quindi il sollevamento estremo della laringe in zona alta, dove maggiore è l'ampiezza dell'imbuto faringeo, dà la possibilità alle corde di fluttuare liberamente. A parte ciò, ritengo probabile che in passato qualche studioso russo abbia fatto sperimentazioni sui risultati ottenuti dalle diverse posizioni della laringe, scoprendo da un lato la possibilità del registro (impropriamente detto) di contro-basso, e dell'altra della possibilità di un appoggio molto energico (e su cui ci siamo già soffermati a commentare in altri post).

L'istinto "buono"

Mi perviene una domanda. Potrebbe qualcuno ritrovarsi un istinto che invece di ostacolare possa aiutare a cantare? Posso dire con buona sicurezza: no! Se qualcuno dovesse ritrovarsi con tale disposizione, dovremmo anche far riferimento a una persona dotata, se così si può dire, di caratteristiche "inumane" e pericolose per la sua stessa vita. L'isinto è un "programma" fissato in tutti noi, che differisce da persona a persona per caratteristiche fisiche del soggetto e per il grado di tolleranza che l'istinto stesso possiede. Quando il grado di tolleranza è molto alto, noi ci troviamo di fronte a persone che cantano con molta facilità. E' possibile avere un indizio: l'estroversione di quella persona. Chi è molto estroverso è poco frenato dal proprio istinto, che sta concedendo molto spazio di sviluppo. La persona non ha timore a rivelarsi anche interiormente, psicologicamente, e quindi si lascerà trasportare facilmente dalla propria indole artistica. Il possesso di doti vocali, è anch'esso un segnale di disponibilità da parte dell'istinto a lasciar passare una buona parte del canto, però non si può pensare che non entri in funzione e non svolga il suo compito, che è quello di preservare la respirazione e il nostro corpo da un lavoro potenzialmente pericoloso, come può essere il canto, che tenta di commutare la respirazione fisiologica, e la funzione del diaframma.

Il vizietto

Di vizietti per la verità ne possono sorgere tanti in chi è alla ricerca del giusto modo di cantare. Ad esempio vedo spesso (specie nei cantori di coro) che qualcuno, specie nel settore maschile, si mette una mano a padiglione dietro l'orecchio. Questo può andar bene una tantum quando si trova in un ambiente magari poco acustico, o lontano dallo strumento che lo accompagna, per avere maggior sicurezza nell'intonazione. Differentemente diventa un vizio oltre che esteticamente poco gradevole anche potenzialmente pericoloso, perché in quel modo si deforma la percezione del proprio suono, e ogniqualvolta si toglie la mano ci si sentirà meno o diversamente e può cambiare anche il tipo di emissione. L'educazione dell'orecchio deve essere fatta in condizioni corrette, quindi senza alcun artificio. Analogamente può capitare di vedere cantanti storcere la bocca. E' anch'esso un difetto da togliere; intanto può nascondere vari tipi di problemi, quindi se chi lo fa non se ne accorge, vuol dire che c'è qualcosa che non va; se lo fa volontariamente, come nel caso precedente sta prendendo un vizio brutto, perché storcendo la bocca si avvicina la fonte (bocca) all'orecchio, e quindi modifica le condizioni di percezione, e non va bene. Però in quest'ultimo caso lasciamo aperto anche uno spazio al dubbio, perché storcere la bocca implica anche un maggior controllo sulle labbra, e quindi è possibile che effettivamente il suono esca migliore, però bisogna ricondurre quella giusta emissione anche alla giusta postura delle labbra e percezione uditiva.

venerdì, ottobre 15, 2010

Quando l'istinto non c'entra

Come ho già scritto più indietro, ci sono situazioni di resistenza che possiamo non addebitare all'istinto di sopravvivenza e difesa della specie umana, e che possiamo invece assegnare a quello che possiamo definire come un istinto estetico personale, quindi soggettivo, e situato a livello di neocorteccia. Nonostante sia superabile, può essere ostico e davvero problematico da aggirare, perché incide non soltanto sulla qualità degli esercizi e del canto, ma sulla memoria cosciente. Se la mente di un allievo si è fatta la convinzione che il canto deve risultare in un certo modo, inteso come colore, timbro, intensità, ampiezza, ecc., e che possiamo considerare difettoso, anche se si segue una strada che conduce verso un risultato diverso, ovviamente corretto, questo istinto, che si può dire sia semicosciente, può impedire o fortemente rallentare l'apprendimento. E' molto difficile superare, nel senso di rimuovere, questo istinto, che può manifestarsi nei modi più disparati, con la creazione di dubbi circa la scuola che si sta frequentando, con un affaticamento mentale esagerato, la caduta di attenzione e concentrazione, ma soprattutto la difficoltà a distinguere suoni giusti da suoni anche considerevolmente difettosi. L'unica strada percorribile in questi casi, laddove esista comunque la volontà dell'allievo a proseguire, ritenendola una strada giusta, è la costanza e implacabilità nel seguire lezioni, nell'esercitarsi e cantare il meno possibile da soli, in quanto in quei momenti l'impossibilità di selezionare il giusto dallo sbagliato porta fatalmente verso l'errore, nel leggere e riflettere il più possibile sulla disciplina intrapresa. E' un po' quella che il M° Antonietti chiamava lezione dell'asino. Non è, soprattutto in questo caso, da intendersi offensiva o riduttiva, ma una necessità volta a modificare un senso radicato ma erroneo e fuorviante.

giovedì, settembre 30, 2010

Studio dei brani e portamento

Dal parlato allo studio di un brano. Ci sono diversi modi per approcciarsi al brano da studiare. Uno è quello di prendere le frasi del brano e trasformarle in esercizio; cioè ad es.: "per me giunto è il di supremo", lo si esegue nota per nota dal centro verso l'acuto e viceversa, poi anche su tre o più note a scala. Poi si passa alla seconda frase e così via. Durante il canto vero e proprio emergeranno certamente punti di peggior esecuzione; allora su quelle frasi si dovrà insistere maggiormente nell'esercizio, per far notare le differenze. Nello studio di un brano capita anche sovente che ci siano note o frasi che risultano particolarmente efficaci, per scrittura o per ragioni nemmeno sempre identificabili. Queste frasi, una volta identificate, possono essere molto utili da mettere in confronto con altre meno buone, e si può ricorrere al confronto diretto o addirittura una sorta di sostituzione di parole o note per far sentire e capire cosa cambia e come invece vadano mantenute.

Un esercizio molto utile, già avanzato, è quello del portamento, che vale sia per gli esercizi parlati che nello studio del brano. Ad es. "ma l'amore va" eseguito su tre note (do-re-mi-re-do), può essere eseguito portando la A di "ma" dal do al re, poi la A di "l'a" viene portato dal re al mi, la O di "mo" dal mi al re, la E di "re" e così via. Questo deve servire al difficile lavoro di togliere il trattenimento del fiato, che (NB) si esplica soprattutto nelle note di ritorno, quindi avere sempre la sensazione di alitare, di soffiare via i vari suoni. Nel canto la cosa è un po' più complessa, e va unita al concetto di legato assoluto di cui il post precedente: "Amor ti vieta": la A dal do al fa viene portata, poi la I di "ti" e "vi" sulle rispettive note, badando di aprire poi bene la è di "vièta". Quindi nuovamente la I di "di" e la prima A di "amar". E poi un suggerimento, sempre di studio: iniziare le singole parole o frasi, specie se iniziano per vocale dopo il respiro, dalla fine di quella precedente. Ad es.: ... iniziare dalla "ve" di "lieve" e fare portamento sul "che" successivo. In particolare può essere efficace in prossimità dell'acuto: "esprime t'amo", il la naturale di t'amo può essere raggiunto dal portamento della E finale "me".

Ultimo suggerimento, ma forse da tenere in maggior conto degli altri. Il passaggio al vocalizzo e attacco del brano. Dopo essersi allenati in modo scrupoloso sul parlato, semplice e intonato, per iniziare il vocalizzo può essere utile partire da una frase parlata e soffermarsi sulla vocale da esercitare: "ma-l'a-mo-re-va-a-a-a-a-", oppure "ma-l'a-mo-re-no-o-o-o-o-". E qui, nuovamente, occorrerà un orecchio esperto per sentire che la vocale non cambi posizione di proiezione. Con lo stesso principio si può attaccare il brano o qualunque frase di esso: "ma-l'a-mo-re-va-a-mo-or-ti-i-viè-è-ta-a-a...". Se poi ci fossero problemi con la "di" successiva, si fa lo stesso percorso dicendo "ma l'amore si, sulla stessa nota ove inizia il "di".

mercoledì, settembre 29, 2010

Parlato iper legato e iper articolato

Se nei primi tempi di avvicinamento alla disciplina artistica per l'apprendimento del canto è fondamentale partire da un parlato il più perfetto possibile, nella fase avanza risulterà fondamentale avvicinarsi al legato perfetto. Cosa sia il legato perfetto è cosa decisamente ostica da spiegare per iscritto. Significa che ogni lettera della frase (quindi senza contare gli spazi tra una parola e l'altra), sia essa vocale o consonante, deve penetrare in quella successiva, ovvero ogni lettera si "trasforma" nella lettera successiva. Vuol dire "alitare", cioè soffiare ogni frase senza alcun freno, senza resistenze, senza pensare all'altezza (intesa come note) o alla parte meramente musicale, ma facendo tutto come si stesse parlando in modo super accurato e quasi maniacale. Se sto dicendo "ma l'amore va...", il fiato che alimenta la M dovrà soffiare la A (provate a farlo sospirando e lo capirete subito), e tutta la frase dovrà risultare "malamorevalamorenolamoresi", con intenso lavoro di tutte le componenti muscolari, tendinee, ecc. del volto e della mandibola. Ovviamente un lavoro così minuzioso richiederà un tempo di esecuzione piuttosto lento, per poter controllare ogni cosa. Fare molta attenzione ai dittonghi e alle vocali accentante: "non vuole andare": la e finale di vuole si trasforma nella A di andare e occorre farlo sentire accuratamente; "egli è un", occorre ben accentare la "è" che si dovrà trasformare nella U successiva. Col tempo si potrà rendere il tutto più rapido e fluente. Per contro un esercizio che richiede tempi lentissimi è l'articolato assoluto, che necessita della massima apertura orale ovunque serve, A, ò, è. Questo è difficile ed è meglio farlo sotto osservazione dell'insegnante, perché si può rischiare di farlo suonare in bocca o addirittura nel faringe, mentre, come nel precedente, è assolutamente necessario alitare, soffiare tutto fuori.
Da questi esercizi si possono ottenere anche ottimi suggerimenti per lo studio dello spartito, che indicheremo prossimamente.

lunedì, settembre 20, 2010

... non bariamo!

Oggi ho ascoltato un cd con esempi didattici di una scuola dell'affondo. Non mi metto a discutere nè sul metodo nè sulla validità dell'insegnante o degli allievi. Ciò che discuto è il modo di trattare l'argomento; in effetti nell'approcciarmi a video lezioni, che come molti sapranno sono in corso di pubblicazione sul sito www.artedelcanto.net, mi sono posto molti dubbi sul procedimento da seguire per risultare non solo chiaro ma anche onesto. Ora, se io faccio eseguire una U a un allievo, prima sbagliata e poi giusta, volendo dimostrare la validità dell'affondo, le U devono essere U in entrambi in casi, poi ciascuno valuterà se esiste una differenza significativa di risultato, anche se occorre ribadire che in un disco un vero e importante risultato sarà sempre impossibile da imprimere, perché è nello spazio che possiamo percepire se la voce spande o meno, e il disco questo non permette di sentirlo. Dunque, non è storpiando la pronuncia di una vocale o modificando la dinamica che si può far risaltare la validità di un metodo. Quando si effettuano delle registrazioni relative alla validità di un "metodo", qualche elemento di oggettività occorra seguirlo, dunque giusta la comparazione, ma ci dovranno essere punti incontestabili di raffronto; in questo senso penso anche che un semplice CD audio, nel caso dell'insegnamento del canto, sia insufficiente, specie nel caso di un metodo che punta molto su un certo tipo di respirazione di forte evidenza esteriore, credo che il video sia indispensabile.

giovedì, settembre 16, 2010

Ancora sui registri

Tra le intuizioni più sconvolgenti del M° Antonietti sulla voce c'è quella che i registri non esistono. Naturalmente non si può fare un'affermazione sic et simpliciter di questo tipo, per cui occorre disegnare bene il quadro di riferimento. Nel corso dello studio delle implicazioni dell'istinto nell'emissione vocale, il M° Antonietti si rese conto che non c'era solamente la parte riguardante la reazione difensiva, ma molto di più. L'uomo ha acquisito la parola come accessorio utile allo sviluppo della specie, e tale caratteristica si è impressa nei geni. Ovviamente il nostro istinto ha un margine di tolleranza, e consente l'uso di un senso sempre al livello minimo di necessità. Ad es. la vista umana è relativa all'uso che l'uomo ne fa; non ha bisogno della vista dell'aquila, e rispetto a quella è molto misera; non ha bisogno della vista notturna del gatto, e anche rispetto a quella è ridotta, pur essendo migliore durante la vita diurna, e così via. La voce serve per parlare, ma non è indispensabile che sia perfetta, per cui diciamo che è "sufficiente" all'uso che normalmente la vita umana richiede, ma possiede uno spazio di sviluppo ancora molto ampio, solo che non essendo necessario, l'istinto non ne permette facilmente l'ampliamento. Però, come si diceva, c'è uno spazio di tolleranza, cioè un margine di miglioramento che l'instinto non avversa, in quanto contempla la possibilità che si possano presentare situazioni contingenti in cui un senso abbia necessità di aumentare la propria funzionalità. Raggiunto il limite di tolleranza (che può leggermente variare da soggetto a soggetto), l'istinto inizierà la propria opera di resistenza, che risulterà sempre più ostile man mano che ci si allonterà dallo standard. Il parlato, inoltre, per le proprie necessità non richiede l'uso di una ampia estensione, ma di poche note, per cui tutto il resto della gamma vocale risulterà come "atrofizzato", cioè insufficiente a un livello minimo di utilizzo. Sappiamo, poi, che un tratto di gamma vocale, in una zona acuta (che è più penetrante e sonoro, quindi udibile anche da maggiori distanze - e la donna, essendo più debole, possiede un'ottava più acuta che è ancora più udibile) viene concesso per motivi di difesa e offesa, cioè il grido, che non avendo necessità di articolazione, è assai più rozzo. Ma occorrono due precisazioni: 1) cosa, esattamente, l'istinto concede o toglie? e 2) perché esiste una gamma o estensione vocale più o meno ampia ma abbastanza standardizzata? Cioè, se l'uomo necessita di poche note per il parlato e altre poche note per il grido, perchè poi esistono altre note, che l'uomo utilizza poi solo nel canto, che come abbiamo detto non è necessario alla sua vita? Inizierò dalla 2: la laringe è a tutti gli effetti uno straordinario strumento musicale, con una estensione standard di circa due ottave. Questo strumento, considerato nella sua possibile perfezione, è capace di produrre una serie omogenea di suoni. Questa possibilità non viene mai meno, ovvero è sempre presente in tutti gli esseri umani, a meno di malformazioni o patologie. Quindi, e qui rispondiamo alla domanda 1, cioè ciò che non consente allo strumento di emettere una serie perfetta di suoni è... "semplicemente", il fiato. Il nostro istinto riduce le caratteristiche qualitative del fiato ove serve moderatamente (zona del parlato), dove serve poco (zona del gridato) e lo riduce considerevolmente dove non serve (cosiddetta intercapidine della gammma, cioè tra le due zone anzidette). Come si è detto a profusione all'inizio di questo blog, il compito del Maestro artista di canto, è quello di ripristinare le condizioni potenzialmente presenti, cioè (ri)dare al fiato in tutta la sua estensione, caratteristiche qualitative tali da poter alimentare perfettamente ogni suono. Quando ciò avverrà, sarà evidente che i registri non esistono, perché, e qui volevo arrivare, è erroneo pensare che i registri siano una condizione delle corde, ma sono una condizione del fiato. E' vero, naturalmente, che le corde, a causa della muscolatura relativa, si presentano in diverso atteggiamento nei due registri, ma è lo "scatto", cioè il passaggio repentino tra i due atteggiamenti che è da eliminare; quando il fiato sarà educato alla perfezione, esisterà solo una gradualità di atteggiamento delle corde, e di fatto i due registri saranno spariti! Ovviamente continueranno ad esistere i colori e i caratteri a disposizione dell'esecutore (ovviamente non basta una tecnica o metodo di studio, ma una disciplina che possa creare un diverso istinto, modificando quello presente in noi).

lunedì, settembre 06, 2010

Emozione...?

Si sente sempre più spesso parlare di "emozioni" all'ascolto di questo o quel cantante (o esecutore in genere). Ricordo una (scandolosa) Orietta Berti durante uno pseudo concorso televisivo di cantanti lirici, che giustificava i propri(assurdi) voti a questo o quel cantante con il fatto che l'avevano... emozionata! Ora, non voglio escludere che questo sia o possa essere vero, però qui si entra nel mare magnum della superficialità e genericità, o meglio ancora nel regno dell'insondabile che vorrebbe giustificare ogni cosa. Infatti a uno che ti dice che tizio o caio l'ha emozionato, che gli rispondi, se poi ha fatto cose turpi? ... Beh, sì, qualcosa puoi rispondere: quali emozioni? Infatti l'emozione non è un "brivido" generico di quando qualcosa ci colpisce, ma molto di più. Le emozioni hanno nomi: paura (in varie sfumature), felicità, dolore, tristezza, rabbia, frustrazione, invidia, ecc. dunque dovremmo riconoscere l'emozione che ci suscita un ascolto. Ma molti rimarranno perplessi di fronte a questa richiesta. Uno, perché non sanno riconoscere le emozioni (leggetevi il bel libro di Daniel Goleman: "intelligenza emotiva"), due, perché riterranno improbabile che i cantanti possano davvero suscitare rabbia o paura o tristezza (e invece sì; Scarpia dovrebbe suscitare rabbia, il finale di Aida tristezza, ...). Il fatto è che molto spesso si confonde l'emozione con la comunicativa. Ci sono esecutori che riescono a essere molto comunicativi, cioè fanno comprendere ciò che eseguono a grandi fette di pubblico. Sono quasi sempre ottimi esecutori, perché i limiti tecnici diventano anche limiti comunicativi, ma non necessariamente comunicano davvero emozioni. Di Stefano secondo me era un comunicatore da premio Oscar, così come lo era il pianista Arthur Rubinstein; Schipa univa le due cose; la De Los Angeles credo avesse anche doti di comunicativa molto elevate, ma anche Del Monaco, Caruso e Gigli. Insomma quei cantanti che vengono definiti "generosi". La comunicativa, a mio avviso, perde parecchio nel passaggio mediatico del disco, ecco perché la critica nei confronti di molti di loro si è fatta più aspra man mano che è passato il tempo dalla loro scomparsa.

venerdì, settembre 03, 2010

Il patto scellerato

Attiene a tanti campi, è molto diffuso in quello artistico e "spopola" nel musicale.
Cominciamo dai "segreti". Una delle "tattiche" di molti presunti competenti, è quella di proporre tecniche o approcci estrosi tali da far credere che dietro siano presenti competenze "segrete" ma miracolose, mirabolanti. E' particolarmente tipica di molti direttori d'orchestra, che durante le prove propongono visioni, suggeriscono soluzioni sonore e talvolta anche tecniche che incontrano l'ammirazione di molti orchestrali, che non capiscono di aver abboccato all'amo, ovverosia che ciò che stanno facendo è puro spettacolo, e non c'è alcuna rispondenza a criteri o giustificazioni sensate; ma anche nel canto c'è da stare allegri (si fa per dire). Qui spesso l'insegnante non fa mistero di avere dei "segreti". Una celebre cantante e poi insegnante di conservatorio, venne registrata da Radio Rai durante una lezione, e a un certo punto disse che certe cose non le avrebbe dette perché facevano parte del "segreto del mestiere". Tutte balle. Chi ha dei segreti, in realtà cela la propria incapacità o insicurezza, perché non esiste un trucco o un "metodo" per accorciare i tempi o raggiungere un obiettivo meglio o più in fretta. Questi risultati dipendono, oltre che dall'alunno, dal livello artistico dell'insegnante. Può fare qualunque esercizio! se non ha le orecchie o la sensibilità di capire quando l'alunno sbaglia, che tipo di sbaglio ha fatto e SOPRATTUTTO come correggere, non c'è segreto che tenga, il risultato non arriverà mai. Il M° Antonietti, ed io stesso, siamo stati un po' redarguiti per aver messo troppo nostro materiale a disposizione. Ma dove sta il problema? Noi vogliamo che il livello artistico migliori, quindi ben vengano coloro che seguiranno gli stessi nostri principi, ma fare ciò che facciamo noi, non è assolutamente detto che porti agli stessi risultati, anzi, se non c'è un sufficiente grado di coscienza, potranno solo venire grossi guai! Un insegnante di mia conoscenza più di una volta disse agli alunni: voi dovete fare anche meglio di me, il mio suono può non essere giustissimo, ma voi dovete arrivarci. Ehh, mi spiace ma non è possibile. Se l'insegnante e l'allievo stanno salendo la montagna sulla stessa parete, chi potrà conoscere la cima e quanto sta oltre? Il maestro, se tale è, deve sempre poter conoscere l'intera montagna, ovvero, nel nostro caso, l'unità canto. A parte la questione "segreti", l'amaro in bocca viene quando si assiste ai veri "patti scellerati", che consistono nel: "nulla so io, nulla sai tu, andiamo avanti così cercando di non farci scoprire". Si tratta di patti taciti, mai espressi ad alta voce, e a volte persino misconosciuti dai sottoscrittori. Cantanti ingolatissimi, che si rendono perfettamente conto di non avere i "numeri" per affrontare certo repertorio, che occupano un posto impropriamente, ma che ci stanno perché nessuno esprime con decisione la verità: "il re è nudo". Il patto scellerato si stabilisce, solitamente, tra persone su due livelli diversi: il presunto maestro e l'ascoltatore presunto esperto. Il presunto esperto per motivi in gran parte esteriori, legati a pubblicità, a mitizzazione, fama, ecc., si "attacca" a questo o quel soggetto, e lo esalta al massimo livello di fanatismo, senza peraltro sapere niente di ciò che attiene il livello artistico; gli piace e basta, ma trova mille frasi e giustificazioni per darne oggettivazione con tutti, soprattutto i possibili critici e detrattori (la frase più ricorrente è: "ne scrivono bene tutti i giornali, non è certo il tuo giudizio che può farmi cambiare idea...!"; come se i giornalisti fossero veramente in grado di dire cose importanti sulla musica). Dall'altra parte il presunto artista, più o meno talentuoso e bravo, ma fondamentalmente privo di Arte, si attornia di simili persone, che creano uno scudo difensivo verso i critici più attenti (al limite glieli scagliano anche contro!!). Questo stato di mediocrità è diventato oggi molto più sviluppato che in passato a causa del proliferare dei mezzi di comunicazione che permettono maggiore visibilità a un pubblico anche di livello molto basso, che è poi quello che più cade in questa rete. Capite, per un modesto cittadino, poter conoscere di persona un cantante molto celebre è toccare il cielo con un dito, e cosa potrà mai smuoverlo dal considerarlo un semidio? E a poco vale qualunque considerazione per quanto comprovata. Ho conosciuto persone che sarebbero anche scese alle mani per difendere l' "onore" di un loro cantante beniamino... Il problema, naturalmente, è sempre il riuscire a mantenere in vita un barlume di verità artistica, altrimenti veramente la decadenza potrebbe diventare irreversibile. Sta comunque in un principio filosofico tutto questo: la Verità, per poter rimanere tale, deve essere conosciuta da pochissimi (che potremmo definire "eletti"), traguardo faticosissimo da raggiungere. Essa si configura a piramide, per cui un risultato eccellente poggerà sulla base di migliaia di mediocri. C'è sempre da far conto, poi, su quanti saranno in grado di cogliere e seguire gli eccellenti, ma nella Verità stessa c'è la risposta: i semplici.

martedì, agosto 31, 2010

Il sapere "prima"

Con questo strano titolo mi riferisco a due fenomeni, apparentemente piuttosto lontani tra loro. Il più antipatico dei due riguarda molte persone che prima ancora di avere approfondito una qualsivoglia materia, per il solo fatto di interessarsene e avendo un bel po' di faccia tosta, si dichiarano competenti (questi li chiamo "i competenti prima"). Il mondo della lirica pullula di questi soggetti, che dopo aver sentito due dischi, aver "orecchiato" qualche nome, paiono avere una cultura enciclopedica. Mi è capitato diverse volte di aver a che fare con siffatte persone, che ti parlano con spavalderia, ma li vedi che tentennano appena fai qualche nome meno desueto o usi qualche titolo o termine più ricercato. Alcuni fanno una piccola marcia indietro e dicono "me ne intendo, non ai tuoi livelli, però..." altri, dotati di un metallo più coriaceo, proseguono indefessi nel dire castronerie. Questi sono anche pericolosi e problematici da gestire, perché se si sentono scoperti ti attaccano, cercano di metterti in contraddizione e così via. Sarebbero da allontanare senza troppi riguardi. Ma veniamo al secondo significato di quel "sapere prima". Questo è un fattore tecnico, istintivo e comune. Capita quasi continuamente a lezione di canto che si faccia fatica, nonostante gli stimoli e gli esempi, ad ottenere un certo suono. Si sprona l'allievo a comportarsi in un certo modo, ma il risultato stenta ad arrivare. Talvolta è il Maestro stesso che intuisce, talvolta l'allievo che esclama: "ma se faccio così succede... questo". Cioè l'allievo prima ancora di fare un suono, ha il timore che risulterà sbagliato o con caratteristiche negative. Questo è un suggerimento del nostro istinto, che non agisce solo per via fisica, ma anche psicologica (i centri dell'istinto sono anche quelli delle emozioni). Uno dei punti salienti dell'apprendimento risiede nella possibilità che l'azione vada oltre l'intenzione, cioè oltre le informazioni già possedute, per cui devo sottolineare che quel suono va fatto nel modo suggerito dal Maestro, e che solo dopo si potrà esaminare se è stato giusto o sbagliato. E' come se l'insegnante si trovasse oltre la cima di una montagna, nel pendio opposto, e spronasse l'allievo a raggiungerlo, ma questi facesse resistenza temendo che oltre la cima ci sia un precipizio. E' del tutto comprensibile, fa parte dell'istinto di difesa (paura) che prende il controllo sugli arti e impedisce o frena i movimenti. Ma il fatto stesso che il Maestro esemplifichi quel certo risultato, così come non precipiti dalla montagna, è il segnale che l'allievo può e deve fidarsi, e proiettare nel futuro le proprie aspettative e non lasciarsi fuorviare. E' questa la funzione ineliminabile del Maestro, senza il quale gli inganni dell'istinto risultano pressoché invalicabili.

martedì, agosto 17, 2010

Il fanciullino 2

Se da un lato, come ho esposto in precedenza, l'idea che si possa cantare pensando a un tipo di respirazione come i bambini è assurda, dall'altro c'è un aiuto che possiamo cogliere e applicare, anzi due. La voce dei bambini, specie quando sono alle prime esperienze, è molto cristallina e la dizione particolarmente spiccata. Dunque imitare i bambini, oppure pensare di insegnar loro a dire bene le parole è il modo giusto per esercitarsi nel parlato, con o senza intonazione. In particolare per le donne è fondamentale, non mi stancherò mai di ripeterlo, esercitare il falsetto nel modo più identico possibile al parlato infantile. Il secondo aiuto che ci viene dal mondo dell'infanzia è lo spirito puro e pulito che possiedono. Ogni cosa è nuova e li meraviglia. Lo studio del canto, lo studio dello spartito, affrontare un'esperienza artistica dovrebbe sempre essere compiuta con quello spirito meravigliato, ingenuo e intonso.

sabato, agosto 14, 2010

Il benessere nemico

L'istinto reagisce al tentativo di creare un risultato artistico per svariati motivi. Uno è che il nostro istinto non sopporta la fatica e induce l'uomo a lavorare (un po' paradossalmente) per faticare meno. In effetti tutta l'evoluzione umana non è altro che lo sforzo di inventare e costruire oggetti, sistemi e servizi che rendano la sua vita più comoda. E' ciò che definiamo benessere. Questo rende l'approccio a tutte le forme d'Arte, e in particolare a quelle, come il canto, che richiedono un impegno fisico, ma anche di volontà, molto più gravoso, e in questo senso possiamo far rientrare la crisi di "vocazioni" e risultati di grande valore. Oggi c'è anche crisi di lavoro, la musica e la lirica non danno alcuna garanzia, però il benessere pone di fronte ai giovani una pluralità di scelte, e sembra che non esista più quell'esigenza unica e indiscutibile verso l'Arte canora, come fu per molti dei miti lirici che tutti conosciamo. Da un lato l'istinto rende più "convincente" la propria riluttanza a farsi domare o addirittura commutare su un piano fisico, dall'altro ha anche carte vincenti sul piano psicologico, potendo contare su un benessere (molte volte più apparente che reale) che crea prospettive di vita più allettanti. Il cantante, anche nei casi più eccezionali, non è più un modello di VIP come poteva essere ai tempi di Caruso o ancora, seppur già molto ridimensionato, negli anni '50. Oggi questi modelli appartengono ad altre sfere dello spettacolo e soprattutto dello sport. Per questi motivi, pur potendo sempre contare su soggetti che comunque sentono il richiamo dell'Arte, che non potrà mai venire meno, il canto esemplare troverà sempre più difficoltà ad imporsi, e sempre più difficoltà a trovare voci straordinarie, perché la disciplina artistica risulterà sempre più ostica da accettare. A questo si aggiunga che il benessere modifica anche anatomie e fisiologie! Le persone diventano sempre più alte e "sottili", sia per un gusto estetico che per motivi alimentari e per il fatto che lavorando sempre meno sul piano fisico, le muscolature si assottigliano, diventano sempre meno toniche, e anche lo sport e il "culturismo" rimpiazzano solo apparentemente questo processo, perché non dettate più da reali esigenze di specie. Questo sta già modificando le classificazioni vocali (la riduzione di voci gravi possenti, la moltiplicazioni di voci acute, come i contraltini), e risulta difficile stabilire quanto potrà avvenire in seguito.

giovedì, agosto 12, 2010

Dal caos all'unità

In questi giorni romani, in cui la principale attività è lo studio della Fenomenologia della Musica, tornando al canto mi piace trasferire qualche concetto, a riprova della vicinanza tra queste Arti, che parlano la stessa lingua.
La Fenomenologia della Musica celibidachiana ci insegna che la Musica si può dare nel momento in cui il caos di milioni di note scritte anche dal più grande compositore (e già non è da tutti cogliere che si tratta di un caos, per la maggior parte delle persone quello stato primitivo è già musica) si può trasformare in un'unità. Il compito della trasformazione compete alla nostra coscienza, ma quello è un lavoro "automatico" che compie indipendentemente dal nostro stato di competenza, ed è anche piuttosto soggettivo; in alcuni musicisti è un fatto istintivo, così come in alcuni cantanti è innato il mettere il suono sul fiato, possedendone le caratteristiche fisiche. Dunque, trasferendo il concetto, noi possiamo dire che chi inizia lo studio del canto si trova in un caos, avallato dal nostro istinto di conservazione e difesa della specie, in cui il fiato non è in alcuna relazione con la laringe (o corde vocali) e con le forme e gli spazi sopraglottici, responsabili dell'amplificazione e dell'articolazione. Lo studio del canto si può dire con semplicità che consista nel mettere ordine in questo caos, e, più precisamente, di mettere in relazione i tre apparati affinché ciascuno possa dare il meglio di sé con il minimo impegno. Anche questo compito è svolto dalla coscienza, che deve ricevere tutte le informazioni possibili, ovviamente corrette, per poterlo svolgere. Dobbiamo anche constatare che il caos piace! Il livello basso è più comune, appartiene a una massa più grande di individui, e dunque a più popolo, mentre un livello alto di Arte, dove una determinata qualità e quantità di fiato è perfettamente rapportata al suono che si vuole ottenere, in altezza, timbro, intensità e volume, e trova la giusta forma e proporzionato spazio ad accoglierlo, dove il caos si è trasformato in un'unità sonora, non viene da tutti accettato, perché la mente delle persone è inquinata dal comune intendere, che ritiene impossibile un livello artistico di perfezione, riservato a una sfera divina. In realtà questo è possibile, pur essendo un traguardo difficilissimo da raggiungere, e deve partire da un'esigenza di elevazione da parte del soggetto che ritiene possibile tale traguardo (se non lo si ritiene possibile è inutile iniziare quel percorso, perché è precluso fin dall'inizio; il Maestro non può e non deve far opera di convincimento), in tempi mai brevissimi, ed è ciò che indichiamo come "flusso mentale operante", cioè il corpo, o meglio alcune parti di esso - in questo caso l'apparato fonatorio - a disposizione della mente. Il corpo, che essendo "animale" risponde prioritariamente ai comandi di una mente istintiva, materiale e occupata da problemi contingenti legati alla sopravvivenza e alle poche esigenze di relazione umana, viene invece indotto a rispondere, senza togliere la priorità vitale, a un bisogno di tipo spirituale, artistico, che può arrivare sino al limite estremo di un'esigenza superiore ai limiti del corpo, cioè divinizzarsi, diventare spirito puro, il che non è possibile, ma quel limite imposto è da considerarsi perfezione, in quanto "non oltre", non superabile dalla condizione umana. E' un limite allo stesso tempo soggettivo e oggettivo. E' soggettivo in quanto due o più soggetti che abbiano raggiunto quel limite, avranno caratteristiche diverse: di classe di appartenenza, di colore, di intensità, di volume, di estensione, ecc., ma quel livello di perfezione non è più graduabile, è lo stesso, e il loro linguaggio, a quel punto, sarà lo stesso. Il limite del linguaggio, che è un problema enorme nel caotico mondo del canto, come in tutti i campi artistici, può identificarsi solo nel momento in cui si raggiunge lo stesso livello. Il vero Maestro conosce tutti gli stadi evolutivi, non si trova su una torre d'avorio beandosi del proprio stato di perfezione, ma al contrario scende fino al livello più basso (sconosciuto ai tanti cantanti che hanno fatto una carriera più per disposizione che per studio) identificandosi con l'allievo alle prime armi, e sapendolo trarre da quella condizione in virtù della spazialità della sua condizione, che essendo "unica", cioè non essendo più suddivisa nei tre o più stadi fisio-anatomici del corpo, saprà sempre indicare la strada più breve e più adatta a quel soggetto (ed ecco quindi la futilità di un metodo) per portarlo nel regno dell'Arte fonica. Nonostante ciò i tempi, a meno che non si tratti di un soggetto particolarmente fortunato, non potranno mai essere brevi. Ciò che può costituire un serio ostacolo al raggiungimento di un obiettivo così elevato, è l'ego. In primo luogo occorre soffermarsi sul principio che un'Arte non è esibizione, non è celebrità e dunque manifestazione esteriore, caduca. L'Arte è per la Storia, è per l'umanità, è per gli altri, e l'ego può solo rappresentare un inquinante, un filtro che impedisce di vedere lontano; la fase più dura di una seria ma "pesante" scuola è quella detta anche della "doccia di chiodi", durante la quale il Maestro dovrebbe cercare di minare, sgretolare anche fino all'annientamento, quell'ego che si pone come un muro sulla strada dell'apprendimento. Questo non significa rinunciare alle gioie e agli aspetti di relazione e di esternazione di qualsivoglia tipo (anche se il Maestro che ha conquistato con sacrificio quel traguardo, potrà risultare un po' ascetico e inavvicinabile), ma con la coscienza di un sapere non superficiale, non destinato all'happening, ma a un evento che lasci un segno in chi è presente.

mercoledì, agosto 11, 2010

Il fanciullino

Ho sentito in diverse occasioni cantanti o insegnanti di canto additare i neonati come condizione ideale di imposto vocale. "il bambino urla delle ore e non resta mai senza voce". E' vero; "poi cresce e perde questa facilità; basterebbe farla riconquistare". Falsissimo. Non c'entra assolutamente nulla. E' come dire: guarda come mangia un bambino, mangiamo allo stesso modo e staremo bene! Credo che ognuno sia convinto che questa affermazione sia assurda. Ebbene, benché le due cose c'entrino poco, lo è anche la prima. Le esigenze esistenziali di un bambino sono ben diverse di quelle di un fanciullo di 3, poi di 5, poi di 7 anni, e così via. Il nostro istinto non è lo stesso per tutta la vita; nei primi anni di vita il "programma" varia di continuo, perché le esigenze vitali sono in rapida mutazione. Per i primi vent'anni, poi le cose tendono ad assestarsi e i mutamenti saranno sempre più lievi e lenti. Questo come primo punto; ma ne esiste anche un altro. Vogliamo parlare di proporzioni? In che rapporto stanno le dimensioni della bocca, dell'intera testa, della laringe, dei polmoni, ecc.? rispetto a quelli di un adulto. Ma poi... quanti sanno quale posto occupa la laringe nel neonato? Ad esempio ci si rende conto delle implicazioni che comporta il fatto che il neonato deve (e può) mangiare respirando contemporaneamente?? Ecco, se qualcuno, prima di buttare frasi ad effetto credendo di aver rivelato chissà quale verità, si informasse un po', forse si accorgerebbe di aver detto qualche sciocchezza senza fondamento, e dunque dovrebbe rivedere completamente la propria "teoria" sul canto.

Il Maestro proiezione di noi

In questi giorni di agosto, una delle tante chiacchierate col M° Raffaele Napoli mi suggerisce una immagine che ritengo illuminante nel percorso di apprendimento. L'immagine è quella di un Maestro non "fuori di noi", ma proiezione di una propria spiritualità. Ovviamente il M° deve esistere, e non è detto che lo si trovi, o chissà in quali tempoM; però alcuni, pochi, uomini (nel senso di appartenenti alla specie umana)che hanno in sè una "scintilla" che sprona l'individuo a una esigenza di promozione superiore, vanno alla ricerca, coscientemente o meno, di un Maestro. L'insegnante comune, anche molto bravo, non appagherà la propria sete di apprendimento profondo. Quando si avrà la ventura di trovarlo, pur esistendo ed essendo una persona fisica, esso va anche inteso come proiezione di una propria ricerca, e anche di ciò che quell'individuo vuole, limitatamente alla sfera di quell'arte, raggiungere. Molti allievi del M° Antonietti lo hanno criticato, anche piuttosto aspramente, pur riconoscendogli il supremo grado di conoscenza, per il brutto carattere e certi modi di fare molto discutibili. Questa però è una sfera dell'uomo che deve esulare dal discorso. Il "nostro" Maestro non è l'uomo, ma ciò che il suo spirito ha conquistato (o, meglio, ha appagato - la conoscenza è una "cifra" che esiste a priori; per potersi rivelare ha bisogno di un Maestro, o, in casi più unici che rari, riuscire a autoinformarsi di tutto ciò che ha bisogno per poter rivelare il proprio, elevatissimo, livello artistico, o di conoscenza). Questo discorso per dire che chi ritiene di aver trovato un Maestro, deve riflettere anche sul fatto che ha trovato una immagine spirituale di sè, e dunque un possibile futuro, se questo non è troppo pesante da sopportare (il più delle volte lo è!).

martedì, agosto 03, 2010

Dell'intonazione

Quando un cantante, o un musicista in genere, si possono definire intonati? La questione non è per niente semplice. Come credo sia noto, il sistema di accordatura "temperato" è un sistema artificiale, adottato per risolvere alcuni problemi tecnici di difficile soluzione, in particolare organi, prima, e pianoforte e tastiere, poi. In realtà gli organi avevano risolto parzialmente il problema, perché erano intonati su una determinata tonalità, e tendenzialmente si suonava su quella. Se ascoltiamo oggi un organo intonato con il sistema equabile, ci sembra stonatissimo! (esistono alcune registrazioni). I due sistemi di riferimento sono quello degli armonici e quello "naturale", cioè dell'orecchio umano. In particolare nelle intonazioni non temperate, diesis e bemolli risultano leggermente diversi. Uno dei campi di più aspra battaglia sul problema intonazione è quello dei violinisti, che intonano tutto ad orecchio. Molti celebri violinisti lanciano strali contro colleghi "stonati", cioè che usano un sistema di base leggermente diverso, ma che a un orecchio "fine" può risultare assai fastidioso. Nel campo canoro la questione è assai più complessa e difficoltosa. Diciamo subito che la prima difficoltà è rappresentata dal sostegno, per cui è già cosa assai difficile per un cantante mantenere l'intonazione dall'inizio alla fine di un'aria. In campo corale questo rappresenta il problema più spinoso, perché molti cantanti ovviamente saranno portati a "stonare" molto più di un singolo. Ci sono casi divertenti, in cui un coro inizia e finisce in tono giusto, ma in mezzo ci sono calamenti e crescite evidenti. I cori operistici sono più portati a calare rispetto ai cori amatoriali. Questo potrà sembrare strano, perché nei cori amatoriali pochi hanno studiato canto, ma in realtà questo significa due cose: il canto cosiddetto "naturale", cioè senza studio, non necessariamente è del tutto difettoso, anzi, se saputo sfruttare con una minima ma efficace guida, può realizzare buone cose (certo in un ambito non operistico e non professionale); il canto operistico, quasi sempre realizzato "gonfiando" i suoni all'interno, porta a calamenti anche notevoli, nonostante un uso più frequente del diaframma e dell'appoggio. Dunque, una lezione di canto comporta fatalmente un compromesso difficilmente superabile: il suono intonato è da intendersi come quello che entra perfettamente in sintonia con l'equivalente suono prodotto da uno strumento perfettamente intonato. Siccome lo strumento che si usa è sempre un pianoforte, o una tastiera, il suono intonato sarà da considerarsi quello "temperato", che come abbiamo detto in realtà non è da considerarsi come perfetto. In ambito corale esistono tecniche di intonazione del coro molto interessanti, basate sugli armonici; per il canto singolo non si ricorre pressoché mai a queste tecniche. Dobbiamo poi considerare che il cantante viene accompagnato o dal pianoforte, con quanto abbiamo detto, o dall'orchestra, che invece può essere considerata uno strumento a intonazione naturale, in quanto archi e fiati sono in grado di aggiustare l'intonazione, anche se il modello temperato finisce per essere sempre quello considerato esatto, con dibattiti accesissimi da parte dei filologi (poi c'è la celebre cantante, stonata, che afferma di cantare secondo l'intonazione antica, e che gli ascoltatori non capiscono...). Ma la questione non finisce qui, anzi. Ci sono innanzi tutto problemi di ascolto da parte di persone che credono di avere un orecchio eccellente, e invece non è vero, per cui sentono intonati cantanti che sono perennemente calanti, anche se costantemente, e sentono stonati cantanti perfettamente intonati, ma con difformità di colore. Un giorno feci una scoperta interessante. Un mio zio, che non capisce niente di musica e di canto, mi sentì fare un suono e mi disse che era più acuto di un altro che avevo fatto poco prima. in realtà non era vero, avevo fatto la stessa nota; riprovai, e mi ripetè la stessa sensazione. Questo mi spiegò anche un altro avvenimento. Anni prima, un signore molto appassionato d'opera, che aveva sentito centinaia di recite nella sua vita, disse che Schipa non avrebbe mai potuto contare l'Otello di Verdi. Non ricordo bene perché la discussione fosse finita a quel punto, ma io ammisi, ovviamente, che Schipa non avrebbe potuto cantare l'Otello per evidenti limiti drammatici, ma musicalmente sì. E lui insistette per un po', affermando che "non aveva le note". Cioè esiste un diffuso equivoco secondo il quale le voci più chiare e piccole hanno meno note di quelle gravi e drammatiche, il che, come sappiamo, non è vero. Ora, la questione del colore ha dei riflessi piuttosto importanti e non trascurabili. Una voce difettosa, ingolata o molto indietro, quella che secondo noi ha "omogeneizzato il difetto", ha buone probabilità di essere considerata perfettamente intonata, anche quando ha un calamento costante (il che è naturale, perché l'appoggio non sul fiato è sempre imperfetto), rispetto a chi cantando sul fiato con perfetta dizione, ha qualche, anche lievissima, differenza di colore su varie vocali. Se il passaggio da una I a una A od O non rimane sulla stessa scia, darà immediatamente l'impressione di un suono calante, e nel caso contrario, da A od O, a I, l'impressione di un suono crescente. Però diciamo pure che per chi vuole un canto perfetto, sul fiato, l'intonazione sarà uno scoglio duro da superare. In sintesi: chi canta male, per le orecchie foderate di pelle di patata della maggior parte degli ascoltatori, che si considerino esperti o meno ("io non me ne intendo, però..."; e se non te ne intendi, taci, no??!), ha sempre migliori probabilità di cavarsela rispetto a chi, con tanti sacrifici e studio indefesso, vuole promuovere la propria voce ad arte, perfezione, verità. In medio stat virtus... MA CHI HA DETTO STA FESSERIA!!?? Comunque, si mediti: a volte meglio una scuola mediocre, che ti fa raggiungere un obiettivo soddisfacente per il tuo ego, che non una scuola di perfezione, come la nostra, che ti pone di fronte a tutti gli ostacoli possibili e immaginabili... Promozione dello spirito o della materia?