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lunedì, dicembre 25, 2017

Del potere

Prendo spunto da alcune preziose riflessioni di Mauro Scardovelli, per elaborare pensieri relativi anche al canto. Già in passato mi sono occupato, ancorché di sfuggita, del rapporto tra canto e potere. Non v'è dubbio che la voce svolge un ruolo non secondario in che detiene o vuole assumere potere; non per nulla un modo di dire piuttosto diffuso (che divenne anche un'etichetta discografica importante) è "la voce del padrone". Timbro, possanza, accentazione sono alcuni dei più importanti requisiti di una voce "autorevole" (quando non addirittura autoritaria). In questo senso avevo già scritto in passato che secondo me le donne hanno modificato nel tempo il loro modo di parlare, passando cioè da un uso comune del falsetto al petto, proprio perché questa seconda voce, tipicamente maschile, è più propria della gestione del potere, e in un cammino di parificazione la donna non vuol essere seconda al maschio anche in questa caratteristica. Poi sappiamo che non è solo questione di potenza, forza e timbro, perché ci sono aspetti relativi alla psicologia, alla retorica, all'eloquio, che possono essere anche più efficaci. Tutto ciò ci può essere utile nel canto, perché attengono al carattere dei personaggi delle opere che andremo a impersonare. Se può essere vero che determinati ruoli richiederebbero voci di forte presa, è altrettanto vero che uno studio sapiente può superare determinati limiti e consentire a cantanti anche non particolarmente dotati di affrontare credibilmente anche ruoli di una certa drammaticità.
Però l'intento di questo scritto è ben altro. Partiamo però dal fatto che per molti cantanti, maschi in particolare, la propria voce può rappresentare uno strumento di potere, cioè non viene gestita quale mezzo artistico ed espressivo, ma come "ariete" per sfondare nel mondo dello spettacolo e imporsi. Purtroppo è molto comune, anche in ambito non operistico. Naturalmente, per quanto si possa trattare di voci importanti, anche a seguito di un discreto studio, qui ci troviamo in una situazione distante dall'arte. Utilizzare la voce quale mezzo di supremazia, pure in ambito artistico, è un potente ostacolo a una conquista di elevatezza espressiva, in quanto la spinta, l'esigenza, è di tipo narcisistico, egoico. Si può dire, con Scardovelli, che alla base c'è una "patologia", che si può riassumere in concetti quali violenza, contrapposizione, accesa competitività, desiderio di sopraffazione e di pubblicità, anche nel tentativo di immortalarsi. Come ho più volte scritto, l'arte non può combinarsi con il narcisismo e con forme di esaltazione dell'ego, in quanto è il limite più forte alla presa di coscienza.
Torniamo però al "potere". Bisogna considerare che non ha sempre e solo un valore negativo. Esiste un potere sano, e utile, indispensabile. Un esercizio di potere positivo riguarda l'organizzazione, l'ordine, la coerenza, il rispetto dei ruoli. Questo però non va visto solo in un'ottica esterna, ma anche, o soprattutto, in una visione interna, interiore. Mi è capitato spesso, con gli allievi, di dire, a fronte di un risultato mancato: "ma chi comanda?". La domanda può apparire singolare. Mi rendo conto, in questi casi, che c'è una resa, un timore nell'affrontare un determinato ostacolo, che richiederebbe (solo) più coraggio e determinazione. Allora "chi comanda?", cioè, in te, dentro di te, chi ha il potere? In questa domanda c'è anche una possibile risposta, perché se non fosse "io", a chi si riferirebbe, se non all'istinto? E' evidente che quando un risultato stenta ad arrivare, la forza dell'istinto è prevalente (oppure, e questo è anche molto frequente, l'ego*). Ma non c'è solo questo; cosa ci frena, cosa ci intimorisce? la forza della verità. Noi quando siamo sulla strada giusta, stiamo percorrendo un cammino virtuoso, di evoluzione e pure di guarigione. Questo ci spaventa, in quanto ci mette a nudo, ci pone di fronte a delle responsabilità (che poi è un concetto di coscienza). Allora, nel rapporto maestro-allievo, si potrebbe dire che il potere è in mano al maestro, che detta le regole, le condizioni, il percorso. Ma questo, in una scuola d'arte, è solo apparenza. Lo scopo dell'insegnante-artista, fin dalle prime lezioni, è e deve essere quello di stimolare il riconoscere il giusto, di capire come e cosa "non" si deve fare (e perché) e di sensibilizzare i sensi al bello, al giusto, al vero. Questo lavoro deve portare all'assunzione di un potere interiore! Sarebbe assurdo, illogico, incoerente e disonesto se il maestro volesse mantenere nel tempo un dominio sull'allievo. Questi deve diventare padrone, dunque maestro di sé. Questo è l'obiettivo supremo. Talvolta il legame psicologico con l'insegnante può diventare "ombelicale" e duraturo. In questo caso deve essere il maestro a dargli un taglio, perché viceversa non farebbe il suo bene.

*: in che senso e in che modo agisce l'ego quando non otteniamo un risultato valido? In senso opposto; cioè evidentemente la scuola che frequentiamo non accoglie, non seduce e non alimenta le nostre velleità narcisistiche; vorremmo impressionare con una voce stentorea e invece seguiamo una strada fatta di sfumature, di senso interiore e profondo, di significato, cioè non esteriore, come evidentemente l'ego vorrebbe. Qui si genera una battaglia, che però deve combattere il solo allievo; deve capire cosa vuole, e la risposta, qualunque sia, sarà dolorosa.

sabato, dicembre 23, 2017

Su e giù

Scrivendo il post precedente, riflettevo sul fatto che ormai da diverso tempo la teoria vocale della maggior parte dei cantanti e dei didatti si concentra su un'immagine verticale interna, cioè alto basso, e solo raramente sullo scorrimento orizzontale. In alcuni disgraziati casi l'orizzontalità è pensata verso il posteriore. Persino a un bambino credo risulterebbe assurdo ipotizzare che ci sia una relazione tra la voce cantata e lo spazio retrostante (cioè parlo proprio di "dietro di noi", dalla nuca, dalla schiena a retrocedere...). Invece per quasi tutti la questione di un buon "metodo" di studio consiste nel concentrarsi o su pancia, schiena o su testa, occhi, zigomi, naso; in qualche caso su entrambe le zone. Non viene il sospetto che forse la voce dovrebbe correre dal punto in cui si canta verso lo spazio teatrale dove essa dovrebbe trovare l'acustica ove diffondersi, ammesso che ne abbia le caratteristiche intrinseche?. E' giusto che qualcuno metta in guardia questo modo di procedere da possibili spinte, pressioni, schiacciamenti, il che non significa che, dato il pericolo, lo si debba escludere. La nostra scuola insiste su alcuni punti basilari, e cioè che il fiato deve scorrere costantemente, senza interruzioni e senza scatti, senza spinte, schiacciamenti e pressioni. Come l'acqua in un tranquillo torrentello. Altro punto: il canto deve propagarsi con la semplicità del parlato colloquiale tranquillo, quindi, anch'esso, senza pressioni, scatti e forzature. Al parlato istintivo manca, perlopiù, la prima componente, cioè la fluidità e scorrevolezza, perché è più una catena di impulsi, quindi, e in fondo, il canto non si può che considerare come un parlato a cui è stata conferita quella fluidità e scorrevolezza che manca istintivamente. Si obietterà che non basta ciò, ci vuole anche intensità, estensione e altro. E' vero, ma è implicito. Cioè applicando la disciplina per realizzare quel connubio tra parola e fiato, si potenzieranno ed esalteranno tutte le altre componenti. Mi spiego meglio: nel tentativo di conferire alla parola la "lunghezza" dei melismi (diciamo le parti vocalizzate), ci si scontrerà con delle difficoltà, anche piuttosto rilevanti. Queste difficoltà si può cercare di superarle con "tecniche" che in realtà non risolvono il problema, ma lo aggirano, modificando e quindi compromettendone la qualità artistica. Occorre invece migliorare gli aspetti fondamentali della parola, cioè mantenere in ogni momento la sua verità di significato; in questo modo si produrrà un'esigenza respiratoria per poter conservare quella condizione (cioè, è il fiato che ci consente di poter esprimere con verità le nostre parole anche in quelle condizioni dove non siamo abituati a parlare, vale a dire su tutta la nostra estensione e in ogni condizioni di dinamica e di colore - comprendendo in questo anche i cosiddetti registri, che sono solo delle "fratture" della gamma vocale dove il fiato non lavora convenientemente in quanto non ne avverte la necessità). Allora l'immagine dovrebbe essere semplicemente quella di un "tubo vuoto" che parte dai polmoni (diaframma) e si apre all'esterno con la bocca. In questo tubo (anticamente detto "beante") deve poter scorrere senza ostacoli e impedimenti, in modo tranquillo, senza pressioni, il fiato, che a un certo punto diventa suono, ma senza fratture, come l'acqua che a una determinata temperatura diventa vapore. Il canto va pensato ancora più leggero ed evanescente dello stesso fiato.
Ritenere che la voce cantata si muova esclusivamente o prevalentemente su una linea verticale, dal diaframma alla testa, è un errore gravissimo. Si omette di considerare che è proprio grazie della piega che la colonna di fiato-suono assume nello spazio orale, che si può assicurare l'appoggio. Se la colonna potesse realmente proseguire verso la sommità del cranio (il che per fortuna non succede anche se un gran numero di cantanti e didatti lo crede): 1) non si potrebbe avere articolazione; 2) la voce avrebbe una sonorità modestissima, perché il diaframma non incontrerebbe nessuna opposizione alla sua risalita.
Ma occupiamoci di un'altra questione molto frequente: la cosiddetta "caduta del suono". E' vero che nel canto, e in particolare in determinati movimenti musicali, il cantante rischia di "far cadere" il suono, cioè esso perde ricchezza, sonorità, bellezza, ecc. Per la maggior parte dei didatti questa "caduta" è dovuta a uno scarso "sostegno", cioè si ritiene che esso "scenda" di posizione (il che non è del tutto falso) e che quindi vada "tenuto su". Per far ciò si consiglia di chiudere la bocca, di alzare la lingua, di sorridere, ecc. ecc. Sono tecniche, e non si può dire che in assoluto non servano, ma in quanto tecniche, se da un lato possono risolvere parte del problema, ne creano altri. L'errore di fondo è il pensiero "statico". La vera ed efficace soluzione non sta in una tecnica muscolare e fisica, ma nel tener presente che la voce è fiato (quindi dinamica), e il fiato deve sempre scorrere. Se si presta attenzione a questo, il problema si risolve da sé, perché dal momento che c'è scorrimento, il suono rimarrà sempre egualmente ed efficacemente sonoro e omogeneo.

sabato, dicembre 09, 2017

Con la lingua retroversa

Qualche giorno fa su un canale di musica classica stavano trasmettendo un'opera di Benjamin Britten; stava cantando un tenore, dopo poco risponde un baritono. Nell'arco di due o tre minuti ho dovuto spegnere! Mi direte, forse con ragione, che sono incontentabile e esagerato. Mah, non credo sia così. Sono riuscito ad ascoltare il secondo atto dello Chénier dalla Scala! Ciò che non sopportavo in quel Peter Grimes era che sia il tenore che il baritono cantavano platealmente con la lingua girata all'indietro facendo bella mostra del "filetto" sottostante. Direte: va beh, magari ascolta senza guardare. Ecco, lì sta il punto, quella postura non è che sia solo brutta da vedere; è che dà luogo a una voce che a me dà veramente fastidio, risultando fortemente compromessa. Quella di girare la lingua indietro, che in Italia fortunatamente trova pochissima accoglienza, è una pratica che invece è molto diffusa nei paesi nordeuropei e in particolare, non so perché, tra i bassi. Anche Domingo la utilizzò in passato, ma non mi pare ne abbia fatto un uso costante. Cerchiamo di spiegare il motivo di questo uso. In fondo è una variante delle modalità anche in voga da noi per non far "cadere" il suono. Chi non capisce che il fiato-suono per non perdere le qualità e fare "scalini", soprattutto negli intervalli discendenti, deve scorrere, e quindi fluire verso l'esterno, senza forza, spinta, pressione, ecc., ma ha un'idea - quindi anche pratica - statica dei vari suoni generati, quando fa un salto verso il basso e magari cambia vocale, da stretta a larga soprattutto, si ritrova un suono meno valido, più ingolato, opaco, ecc. nelle scuole della "maschera" è invitato a tenere "alto" il suono, verso gli occhi o la fronte, ecc., minando in questo modo l'appoggio, cioè rischiando di sollevare il fiato dalla base; in altri contesti, avendo la lingua attaccata al palato, ritiene che esso stia sempre alto, non essendoci lo spazio per scendere. E' un pensiero abominevole e del tutto errato, perché la lingua messa in quel modo ostacola fortemente il fluire del fiato-suono, che rimbomberà nello spazio faringeo. Questo darà forse più conforto al cantante, che si sentirà la voce molto forte entro di sé, ma non si accorgerà forse di quanto compromette tutte le componenti più importanti della voce cantata. Intanto che ci siamo facciamo qualche considerazione generale sulla lingua.
La lingua potremmo definirla una "spia" molto efficace della qualità vocale. Una lingua che si muove molto, che retrocede, che compie movimenti innaturali o che oscilla, segnala una condizione respiratoria carente. Salvo alcune vocali, che ne richiedono il sollevamento, essa deve rimanere dolcemente appoggiata al pavimento della bocca, distesa (mai tesa) e in alcuni momenti può presentare un solco centrale. Nella I può atteggiare la punta a "cucchiaino" contro i denti inferiori. Perché è importante osservare la lingua? Proprio perché ci dà il riscontro di quanto sta sviluppandosi la giusta respirazione. Il fiato quando, per varie cause, reagisce a un lavoro che non è compreso dall'istinto, preme verso l'alto contro la mandibola e contro la laringe, coinvolgendo in questo la lingua che è attaccata. Quindi posizioni morbide, fluide, piacevoli della lingua segnalano anche una educazione respiratoria valida. Attenzione: è bene evitare di far assumere alla lingua posizioni volontariamente (come tutto ciò che sta dentro). Sarà con l'educazione del fiato-voce che si giungerà alle corrette posizioni. Tutt'al più, ma proprio occasionalmente, si può far attenzione a che la punta tocchi i denti inferiori, liberando un po' di spazio retrostante per un più agevole scorrimento del fiato-suono.

venerdì, dicembre 08, 2017

Apprezzare

La difficoltà nel raggiungere un risultato artistico di rilievo in ogni campo, è dovuta a una evoluzione parziale dell'uomo, che ha modificato molti dei propri parametri fisici, espressivi e psicologici, tali per cui riesce a fare tutta una serie di cose molto complesse e di notevole qualità, ma non tutte, o completamente, a livello "spontaneo", o naturale, ma solo dietro impegno straordinario in una disciplina atta allo scopo. Quindi molti uomini riescono a fare cose importanti, anche in campo artistico, compreso il canto, che qualcuno indicherebbe come "istintivo" (il che non è corretto) o "sesto senso" (anch'esso non molto corretto), ma senza averne coscienza, quindi controllo. Tra queste cose vi è anche il giudizio o apprezzamento. L'uomo che si discosta dal resto del mondo animale, è in grado di distinguere i contrari, cioè il bello dal brutto, il giusto dall'ingiusto, il male dal bene... almeno così sembra, ma in realtà sempre a un elevato grado di incompletezza, ovvero "istintivo" (che non è). Lo spirito di libertà, o scintilla divina, che in noi alberga, non può palesarsi oltre un determinato grado - in modo soggettivo - in quanto ostacolato dalla forte resistenza della nostra componente fisica e quindi dal controllo realmente istintivo che è deputato al suo controllo, funzionamento e difesa. L'arte è indice di verità e di bellezza; saper vedere il vero e il bello non è concesso in modo consapevole, ma richiede un cammino irto di difficoltà. Si apprezza un bello superficiale, che sicuramente può nascondere il vero e il veramente bello, ma è un approccio intuitivo, da non sottovalutare, ma che non può dichiararsi oggettivo e quindi condivisibile. C'è poi anche una questione relativistica. Se noi guardiamo la natura, osserviamo sprazzi di ambiente che ci tolgono il fiato per la suggestione, l'impatto fortissimo che ci comunicano, altri che non notiamo per niente. Anche su questi noi rivolgiamo spunti critici. Siamo spesso pronti a partire, a fare lunghi viaggi, magari perigliosi, per vedere o rivedere panorami straordinari, e a malapena ci accorgiamo di quanto ci attornia. Perché siamo attratti dal bello, o almeno da un qualcosa che definiamo bello? E' una condizione della stessa conoscenza, che necessita di riconoscersi (altrimenti rimarrebbe fine a sé stessa, dunque inutile e quindi tendente a sparire, il che è impossibile, incoerente), quindi nell'essere più evoluto, l'uomo, inserisce la condizione di saper riconoscere le differenze ed esprimere un giudizio; in questo modo le persone sono attratte dal bello, e seguendo quella strada alcuni, pochi, sono anche curiosi di andare oltre e intravvedere la strada del vero. Anche nel canto abbiamo molte false belle voci, ovvero voci superficialmente belle: voci ricche, fastose, timbrate, opulente, e poche vere belle voci, cioè voci che esprimono il vero. La vera grande e bella voce può anche non apparire particolarmente bella, cioè "edonisticamente" piacevole, almeno al primo impatto, ma quanto porta con sé, la profondità del messaggio che giunge dal nostro cuore o centro emotivo, potrà rivelarsi sempre anche a coloro che poco capiscono o che sono testardamente instradati su gusti più rozzi, superficiali e sensoriali. Ormai tutti coloro che seguono questa scuola sanno fino alla nausea che ciò che permette il raggiungimento di una meta che sfiora il trascendente passa attraverso due condizioni: seguire la parola, quella vera e spontanea che ci permette di esprimere sinceramente dei contenuti, e un'evoluzione respiratoria che consente a quella parola di proiettarsi o elevarsi a canto. La parola, quindi, che noi già possediamo, anche se limitatamente a una condizione comunicativa di relazione sociale, è indispensabile perché, richiedendone un accrescimento qualitativo, provoca l'esigenza di sviluppo respiratorio conseguente, che è appunto la condizione artistica che noi desideriamo. Viceversa oggigiorno la maggior parte degli insegnanti punta unicamente al suono, facendo addirittura un discorso inverso, cioè ritenendo "fastidiosa" la parola che con le differenze che caratterizzano le varie vocali, impedirebbe l'uniformità e l'omogeneità sonora, dunque spesso tenta e tende a accentrare in un suono unico, con scarse sfumature, l'insieme delle vocali. Lo si potrebbe definire un crimine verso le caratteristiche umane e verso l'arte. Questo può creare superficialmente una "bella voce", ma impedisce, per intanto, la fondamentale comunicazione testuale a un livello percettivo profondo, ma anche dal punto di vista vocale il suono senza l'arricchimento delle caratteristiche dell'articolazione verbale non permette il raggiungimento di una vocalità realmente bella. Molte persone, che possiamo tranquillamente definire ignoranti, senza per questo volerle insultare, quando sentono che un cantante pronuncia in modo decisamente chiaro, subito tendono a dire: "eh, ma così sembra che canti musica leggera". In alcuni casi c'è una volontà sminuente, e non si comprendono le vere differenze tra il canto artistico e quello di tipo canzonettistico. Le differenze sono tante, dallo stile alla capacità di farsi sentire in qualunque spazio senza necessità di amplificazione elettronica, all'estensione... ma per quali assurdo motivo un cantante lirico non dovrebbe pronunciare con assoluta perfezione? Ce lo spiega un passaggio successivo: se la parola è troppo accentuata, secondo loro si perde il "timbro lirico". Purtroppo in moltissimi casi quello che si chiama "timbro lirico" è ingolamento bello e buono. Suoni gutturali, senza vita, vibrazioni artificiali, spinte e manovre senza alcun senso che non fanno altro che imbruttire e corrompere ciò che abbiamo potenzialmente di bello, sano, comunicativo, espressivo. Quando mi muovo in auto, sono spesso attratto da alberi cresciuti bene, che hanno una maestosità e una forma meravigliosa (questo specie in autunno inverno quando senza le foglie si nota meglio la struttura); poi resto basito quando in alcuni giardini vedo piante potate con forme bizzarre tipo animali. Ecco, è un po' la stessa cosa nel canto: abbiamo la possibilità di esprimerci con qualcosa che può crescere e svilupparsi in forme meravigliose, ampie, unitarie, gradevoli e portatrici di messaggi a più strati, dai più semplici e superficiali ai più profondi, dolorosi o benèfici, e noi invece di consentire questo meravigliosa possibilità, la deturpiamo con criminali "potature", ovvero manipolazioni laringoiatriche. Se non partiamo dall'apprezzare il semplice, il chiaro, l'elementare, e il filo che lega il prima col dopo, siamo già nell'errore, e dobbiamo tornare indietro, il che non è mai facile, ci vuole uno sforzo non solo di volontà e di studio, ma psicologico. Dovremmo in un certo senso arretrare alla nostra infanzia per escludere o meglio controllare, essendo comunque ormai in un'età in cui certi meccanismi sono scattati, gli interventi dell'ego ci hanno portato a considerare le proprie virtù artistiche, non solo un mezzo spirituale, con quanto consegue, ma un oggetto di esaltazione, in alcuni casi - dietro al successo - anche di possibile esercizio di potere o di dominio. Quindi tornare indietro per attuare il vero artistico, vuol dire rinunciare con tutto il cuore, come suol dirsi, a "mercificare" il proprio dono e metterlo umilmente a disposizione di tutti. In questa prospettiva ecco che si comprenderà il suo vero ruolo comunicativo, e non più quello propagandistico di un sé che non ha poi nulla da propagandare se non un vuoto apparente. Come cantava Petrolini in Gastone, "bello, senza nulla nel cervello"; ecco, quando sento molti cantanti anche famosi, alla fine non posso che concludere con una riflessione analoga: non ho sentito nulla di interessante, un suono dietro al quale non c'era niente.

martedì, ottobre 31, 2017

"Cara semplicità, quanto mi piaci".

Esiste una pronuncia "vera", che è quella che utilizziamo quotidianamente nella nostra comunicazione spontanea. Avrà vari difetti, se considerata "dall'alto" di un giudizio di qualità artistica. Quando si parla, a meno che non ci siano difetti molto rilevanti, difficilmente qualcuno ci verrà a dire che parliamo "male", a meno che non sia qualcuno che si intende a un qualche livello di vocalità, vuoi un attore, un presentatore, un cantante. Viceversa se una persona parlasse diversamente, ad esempio mettesse tutti gli accenti giusti al posto giusto, togliesse le varie storture cadenzali locali, riceverebbe subito dalle apostrofi sul modo "strano" di parlare (ricordo in una celebre commedia con Gilberto Govi che il protagonista viene ripreso dalla moglie perché dice una parola in perfetto italiano invece che in genovese; ancor più ricordo molti anni fa di aver tenuto un piccolo corso di teatro a un gruppo di maestre delle scuole primarie e alla prima lezione sulla dizione, le maestre mi guardarono esterrefatte dicendo: "ma poi mica dovremo parlare così! cosa direbbero i genitori??").  Cioè quando si esce dal modo standardizzato di parlare, a chi ci ascolta normalmente quella diversità già suona falsa. Il che potremmo dire che è vero, in quanto occorrerà del tempo affinché i vari perfezionamenti che apportiamo al nostro parlare diventino realmente "nostri", cioè parte di noi, e non solo un "modo" di parlare che però non suona più naturale e spontaneo. La questione diventa ancor più rilevante quando la parola assume un valore melodico, cioè canto. L' "allungamento" delle vocali non ci appartiene più allo stesso livello verbale, cioè non lo sappiamo realmente gestire, quindi il significato rischierà di perdersi, ovvero, come si diceva, non sarà più vero. E qui entriamo appunto nell'ottica della "seconda pronuncia", che è quasi più nota della prima. Mi spiego: si ritiene generalmente che ogni vocale abbia una sua "posizione" in una certa parte delle cavità oro-faringea. Questo dato è contenuto non solo in trattati di canto, ma persino in libri di ortofonia e foniatria. Questo dato non è corretto, ovvero è un dato "transitorio", che percepiamo quando il nostro canto è "in divenire", cioè si passa da quella fase iniziale, in cui non sappiamo cosa stiamo facendo, perché del tutto privi di qualsivoglia coscienza vocale, a quella finale dove ritroviamo la vera pronuncia, quella del parlato spontaneo e naturale, ma arricchita (perfezionata) da tutte le componenti che avranno fatto sì che quello diventi non solo parlato esemplare, ma anche canto puro e perfetto. Per cui sentire la "U" in fondo alla gola, tanto per fare un esempio, è da considerare una situazione di carenza respiratoria (rispetto il canto perfetto). Quindi, per consolidare bene questo aspetto, il fatto che la pronuncia quando si passa da quella naturale a quella melodica finisca tra bocca e gola, è da considerare una CARENZA respiratoria (non assoluta, ma legata alla relazione tra i tre apparati), che dovrà essere recuperata grazie a una disciplina molto impegnativa. Fin qui non ci sarebbe altro da dire, se non fosse che per molti insegnanti queste posizioni interne sono addirittura situazioni da cogliere in senso didattico; se non fosse che produce un'immediato riflesso: come si fanno a "uniformare" le molte vocali se ognuna occupa una posizione diversa? E siccome la risposta giusta non c'è, la conclusione è che si modificano tutte nell'illusione (demenziale) che si possano racchiudere tutte in un unico luogo, che più o meno corrisponderà alla U. E da qui poi ne discenderebbe che allora il canto lirico è un canto scuro, perché tutte le vocali si spostano verso la U, ovvero le vocali pure tenderanno a sparire (poi magari pure la U, ritenuta troppo "stretta", diventa O). La soluzione invece è talmente semplice ed evidente che viene dai più rifiutata ("cara semplicità, quanto mi piaci!"). La pronuncia vera, quella del nostro parlato quotidiano, è fuori dalla bocca (è facile constatarlo), tutto il nostro parlato assume significato, tutto è omogeneo e distinto. Saper cantare significa educare il nostro fiato a sostenere un parlato arricchito di tutti gli elementi più preziosi, compresa la linea melodica, su tutta l'estensione che ci appartiene e con tutta l'intensità che ci è propria, nello stesso spazio e posizione (quello esterno, per l'appunto) del parlato comune. Se ci si allontana da questo precetto, siamo già destinati a un canto difettoso, per quanto si sia in possesso di doti vocali rilevanti. Avere una bella voce è un grande premio della Natura, ma il CANTO non è solo quello, anzi, non sarebbe affatto quello; canto dovrebbe essere PAROLA elevata, non suono potente. La pronuncia interiore è sempre falsa, può assomigliare alle vocali, ma un po' di allenamento uditivo basterà a percepire che una A esterna o interna non hanno niente in comune, così come un occhio un po' allenato riconosce una pietra o un metallo vero da uno imitato. In teoria riconoscere una voce vera da una imitante o falsa dovrebbe essere molto più semplice, perché è qualcosa su cui facciamo allenamento tutti i giorni, ma anche l'orecchio quando si esce dall'ambito comune per entrare in quello artistico, quindi una voce che canta, già se non ha una certa educazione tende a confondersi e non sa più valutare, quindi deve essere allenato pure lui.

martedì, ottobre 24, 2017

Il film

Come è noto, un film o un video è costituito da una sequenza di innumerevoli fotogrammi; in pratica si assiste a un effetto ottico dove innumerevoli fotografie, cioè immagini statiche, proiettate a una determinata velocità, si trasformano in un film, cioè in un'azione dinamica realistica. Questo perché il nostro occhio-cervello quando le immagini si susseguono velocemente le collega ricreando una realtà fittizia. E' un effetto noto anche in tempi antichi, che si produceva facendo scorrere una serie di disegni con piccole differenze che creavano un effetto dinamico. Non sappiamo con esattezza se la realtà del mondo che ci circonda sia un flusso realmente continuo o anch'esso sia una sequenza di immagini statiche che si giustappongono rapidissimamente, perché ci sono i limiti della nostra mente e dei nostri sensi, però per quanto ci è dato sapere fino ad oggi, il flusso è continuo, e nessuna tecnologia è stata in grado finora di produrre un film che non si basi sulla tecnica suddetta. Il nostro orecchio (o senso dell'udito) non funziona proprio nello stesso modo, ma ci sono comunque delle analogie. Quando parliamo quotidianamente con i nostri parenti, amici, vicini, concittadini, ecc., noi non usiamo sempre un flusso continuativo, ma parliamo un po' per "neumi", cioè diamo accenti qua e là alle varie sillabe che compongono le parole e frasi che intendiamo dire, in base alle nostre caratteristiche linguistiche personali, familiari e territoriali, che in genere sono note a chi ci sta intorno e chi ci conosce, dunque il nostro parlare è compreso, perlopiù, e si coglie non solo il significato ma anche l'intenzionalità, l'espressione, il carattere di quanto diciamo. Se una persona proveniente da altri luoghi ascolta, può capire perfettamente, ma trovare curioso, strano, diverso quel modo di parlare, può non capire del tutto o comprendere pochissimo, pur trattandosi della medesima lingua, cioè della stessa nazione e pur non ricorrendo a dialetti o lingue locali. Sono le cosiddette cadenze (dette anche "calate"). Adesso non mi metto a fare una trattazione sui dialetti, sugli aspetti positivi o negativi che questi possono avere sul canto, perlomeno non qui, però diciamo che con varie differenze, ogni territorio ha plasmato sfumature linguistiche basate sulle caratteristiche delle attività della maggior parte della popolazione antica, per cui ci saranno parlate più "povere", laddove per caratteristiche del territorio i lavori inducevano a lavori duri che necessitavano di risparmiare, oppure lavori su zone molto estese che necessitavano di comunicazioni a distanza (guardiani di bestiami oppure coltivatori in latifondi), oppure lavori con persone ravvicinate e che necessitavano di comunicazioni frequenti e prolungate (mercanti), e così via. Mentre queste ultime si contraddistinguono per un maggior legato, e risultano quindi più "musicali", piacevoli da sentire, calme e nei registri centrali (anche perché certi mestieri cercavano anche di affascinare, attirare le persone), le prime cui abbiamo accennato sono più aspre, spigolose, acute e molto spezzettate (la comunicazione era più pratica e sintetica). In ogni caso possiamo dire che, con differenze anche di un certo rilievo, il parlato è un po' come un film, cioè composto da miriadi di sillabe, alcune più accentate altre meno, comunque generalmente abbastanza slegate e che però il nostro orecchio riesce a ricostruire; a differenza dell'occhio - o senso della vista - però, nel caso dell'udito la questione è culturale, non fisica. Cioè qualunque uomo nel vedere un film non si accorge dei fotogrammi, mentre nel sentire una persona parlare in una cadenza molto diversa dalla propria può non comprendere (del tutto) e percepire la diversa strutturazione della parola e delle frasi. Questo però fino a un certo limite, perché anche in quei territori ove si parla una lingua più scorrevole e legata, difficilmente si "incastonano" le parole e sequenze di parole in modo realmente continuativo in un flusso, come nel raffronto tra immagini di un film e la vita reale. Come ho già spiegato, la questione riguarda il consumo energetico. Parlare con un flusso continuo necessita di un maggior dispendio di energia a causa di un rapporto più stretto tra fiato laringe e apparato articolatorio. Se e quando questo si produce si avrà anche una voce più sonora e ricca. Nella realtà ciò è molto raro e legato più a situazioni personali, però possiamo anche dire che favorirà più determinate popolazioni di altre. A livello mondiale non c'è dubbio che l'area mediterranea è più favorita. Alcuni storcono il naso di fronte a queste osservazioni, perché si ritiene che sia un punto di vista irrispettoso delle altre culture e delle caratteristiche di altri paesi. Si può dire che il canto lirico, così come l'abbiamo conosciuto, sia la forma di arte vocale per eccellenza? Qualcuno può dire che invece la vocalità come è praticata etnicamente in Cina, Giappone, Arabia, India, ecc. sia altrettanto valida? Certo che si possono fare diverse valutazioni. Nella cultura locale ogni forma d'arte ha una sua validità, che ha radici storiche e sociali importanti, e in questo senso non si possono fare paragoni. Quindi il teatro lirico in sé non si può definire come un'arte superiore alle altre. In ciascun territorio si è anche trovata una modalità profonda di esprimere i sentimenti con il canto e la musica con una forma sentita in quella zona circoscritta. Ma il canto lirico, se praticato ai massimi livelli, come espressione di puro canto, è il tipo di emissione più puro, libero ed elevato, e in questo senso è riconosciuto piuttosto ovunque, anche se in molte zone non viene praticato e neanche ascoltato perché troppo lontano culturalmente dalle modalità di espressione e comunicazione locale. Mi sono avventurato un po' troppo lontano dal punto di partenza, ma mi pare comunque un argomento piuttosto interessante. Ciò che in conclusione intendo stimolare è l'attenzione verso un parlato più "impegnativo", da utilizzare poi nel canto. Si provi a ripetere una breve frase leggendola molto lentamente e facendo attenzione a non staccare mai una sillaba dall'altra. Ci si accorgerà che il fiato subito comincerà a lavorare diversamente e si proverà più impegno respiratorio. Questa è una delle basi fondamentali del buon canto. Si passerà poi nel ripetere quella stessa frase su una nota specifica, comoda, senza nulla cambiare nelle modalità di esposizione. Ma questo già è un passaggio che necessita di un controllo, perché si crederà di non cambiare nulla, ma in realtà facilmente già si saranno compiute delle azioni di modifica che l'istinto avrà "suggerite" per ridurre l'impegno, specie quando si cercherà di produrre quel parlato su note un po' lontane dal proprio centro. Qui mi fermo perché credo di aver già detto abbastanza...!

martedì, ottobre 17, 2017

I tre amigos

Vediamo i livelli di priorità del fiato:
1) respirazione - scambio gassoso
2) posturale-meccanico
3) verbale
Il primo livello è ovviamente vitale, non è possibile il suo venir meno se non per un tempo brevissimo, dopodiché si verificano danni gravi e pochissimo dopo la morte.
Un problema al secondo livello non porta alla morte, ma a una situazione molto grave; è un fatto raro, che può essere causato da gravi patologie, per cui deve essere asportata in toto o in buona parte la laringe, per cui i polmoni perdono la loro "valvola", non è più possibile l'apnea e quindi anche ogni sforzo e pressione interna o equilibri posturali non trovano la valvola e il "tappo" su cui appoggiarsi.
Problemi a livello verbale sono molto meno gravi da un punto di vista fisico, e si ripercuotono solo sul piano relazionale e sociale, per quanto oggigiorno abbastanza superabili.
Nel primo livello il fiato scorre, fluisce da dentro a fuori e viceversa con una certa regolarità e in base all'attività fisica che si sta svolgendo; non c'è alcun tipo di relazione con la laringe e l'apparato articolatorio a meno che non intervengano fattori disturbanti.
Il secondo livello riguarda il nostro stare diritti e tutto ciò che riguarda la postura del corpo ed eventuali attività che comportino sforzi di una certa rilevanza per cui il fiato deve andare in soccorso alla muscolatura. In questi casi l'apnea, cioè la chiusura totale o parziale della glottide è indispensabile. In questo secondo caso il fiato è contenuto nei polmoni e la relazione con la laringe e gli spazi sopraglottici potremmo definirla oppositiva.
Durante la verbalizzazione comune, quindi nel terzo livello, avviene invece che fiato laringe e articolazione entrino magicamente in sintonia tra loro, relazionandosi perfettamente (perlomeno nella stragrande maggioranza dei soggetti). In questo caso, dunque, il fiato diventa, seppur con un certo disordine, alimentazione strumentale, non perdendosi ovviamente la priorità del primo livello, a meno che il ritmo respiratorio debba aumentare considerevolmente come durante una corsa o una salita irta. La voce perde il suo ruolo quando subentra la priorità due, cioè quando il corpo perde in modo rilevante il suo "aplomb", o quando si devono sostenere degli sforzi di un certo carico. In questo caso la laringe viene richiamata al suo ruolo valvolare e perde quindi quello verbale e musicale. Qui c'è anche un'altra implicazione: quando emettiamo suoni che il nostro istinto non riconosce sul piano verbale e che richiedono un certo sforzo, essi sono interpretati come un richiamo meccanico-posturale apneico, quindi se il canto è scorretto e comporta sforzo, non solo risulterà difficile in sé, ma provocherà ulteriori problemi.
Tutta questa disamina a che conclusioni ci porta? che noi abbiamo la necessità, per poter educare la voce, di rimanere il più possibile nei livelli 1 e 3, evitando accuratamente il 2, perché è il più distante dai nostri obiettivi. Non solo dobbiamo cercare di assumere una postura diritta, pur nel rilassamento, e un bel portamento, evitando di stare appoggiati su una sola gamba, di piegarsi in avanti (specie le donne, che hanno già uno sbilanciamento naturale) ma dobbiamo assolutamente cercare di evitare di fare con la voce ogni tipo di azione che possa mettere l'istinto in condizione di interpretarlo come un richiamo posturale-apneico-meccanico. Ci soccorre in questo il livello uno, cioè puntare alla fluidità, al consumo costante e, almeno apparentemente, notevole di aria. Questo ci aiuterà a tenere il "tubo" vuoto e ampio. Attacchi duri del suono, accenti forti improvvisi, colpi, movimenti incontrollati di spalle, braccia, petto, avranno facilmente come conseguenza movimenti altrettanto inconsulti della laringe e probabili chiusure o comunque impossibilità di mantenere legato e scorrevolezza.
C'è da ribadire che il passaggio dal verbale "normale" a un verbale più ricercato ed espressivo già può causare qualche problema, perché il voler tenere più unite le sillabe, il dare rilevanza ai caratteri, ai registri (sempre in senso espressivo), alle dinamiche, ecc., comporterà maggior consumo di energia, il che non piace al nostro istinto, che è molto economo. Quando parliamo normalmente, si può dire che lo facciamo a "spruzzo", cioè tendiamo a separare molto le sillabe, anche se ce ne accorgiamo poco o niente, sia producendo che ascoltando. Questo sistema permette all'aria di uscire poco alla volta senza permanere troppo nei polmoni, che all'istinto non va, non creandosi quindi pressioni interne particolarmente rilevanti. Appena iniziamo a parlare "bene", le sillabe e poi le parole tenderanno a unirsi creando arcate espressive (parlato "musicale") e questo farà sì che le corde vocali restino addotte per un tempo maggiore, quindi il fiato uscirà più costantemente ma anche più lentamente, mettendo in allarme l'istinto che non gradisce che l'anidride carbonica permanga troppo nel corpo. Figuriamoci cosa succede nel canto, quando le corde sono (o dovrebbero restare) addotte per lungo tempo e la pressione aerea può aumentare per far vibrare le corde con massa maggiore, se si richiede più intensità, o con maggior tensione (suoni acuti) o entrambe le cose!
Quindi anche solo la strada del buon senso ci guida a dare la priorità alla respirazione NORMALE, evitando di prendere fiati profondi ed eccessivi, e alla PAROLA, che dovrà porsi, ovviamente, su un piano di elevazione espressiva e artistica, quindi musicale, con una gradualità che porti questo piano che possiamo definire naturale in quanto spontaneo ma carente e "rozzo", a un piano nobile e di elevata comunicativa.
La cosa molto difficile, quindi è far sì che quella relazione tra gli apparati resti sempre attiva, come se fosse il livello uno, cioè un consumo costante e "a canna aperta", e come il livello tre, cioè di naturale verbalizzazione. Se non partiamo però educativamente da questo, è assurdo pensare di ottenerlo successivamente!
Il canto tecnicizzato, comunque lo si voglia intendere, manterrà sempre o in buona parte separati gli apparati, che lavoreranno come se fossero tre sconosciuti, senza affiatamento, senza collaborazione, senza comprendersi e integrarsi vicendevolmente. Viceversa è l'unione che fa la forza, e qui possiamo dire che l'unione produce addirittura esponenzialmente i suoi frutti, ma è del tutto presuntuoso e assurdo pensare che si possa ottenere con delle tecniche; il bandolo della matassa è già lì, il parlato, dobbiamo solo raccoglierlo e iniziare a dipanare la matassa.

lunedì, ottobre 09, 2017

"Ma mi sentiranno?!"

Questa domanda-esclamazione viene detta o pensata da miriadi di allievi di canto quando, dopo infinite esortazioni a "togliere" intensità, spinte, pressioni, forzature varie, riesco a far ottenere il giusto grado di sonorità (che loro percepiscono come troppo piano). C'è poco da fare; l'istinto e la mente razionale ci fa ritenere che se non cantiamo forte il pubblico non sentirà. Questo blog è pieno di post in cui si parla dell'importanza del "dare poco". Ancor meglio: il maestro Antonietti in una lezione (che si trova sul sito) dice, poco dopo l'inizio: "il centro è come quando si parla". Cosa significa? Non è difficile, ma nessuno ci arriva, sembra assurdo, paradossale. Parlare con la stessa semplicità e naturalezza con cui si parla, compresa l'intensità. Una persona che non canta e non ha studiato potrebbe dire: "se io vado su un palco e parlo, nessuno mi sente! E anche se cantassi, farei ridere!". Ed è vero, ma allora come stanno le cose? Ripetiamo per la millesima volta (ma va bene, anche per un milione!): occorre educare, far evolvere il fiato affinché diventi alimentazione perfetta di un suono vocale perfetto. La voce perfetta è parola elevata a canto, cioè è parola con le più elevate potenzialità foniche, quindi è quella parola cantata che si potrà sentire in qualunque ambiente (con  i limiti del soggetto, che però nella perfezione sarà sempre udibile, anche se con voce molto modesta). La parola parlata quotidiana è relativa al contesto, cioè della quotidianità e della povertà richiesta da una situazione che non richiede più di quanto diamo normalmente. Occorre quindi soffermarsi sulla scarsità di qualità del parlato che noi usiamo e iniziare un percorso qualificante di elevazione della parola, quindi di associazione al tono. Questo è semplicemente il cammino più elementare e meraviglioso che possa esserci per innalzare la voce alle sue più alte condizioni di manifestazione artistica.
Per spiegare la cosa a un livello un po' più razionale: quando si canta forte, senza avere una preparazione respiratoria artistica (quindi... mai o quasi mai!) la pressione del fiato insiste sulle corde vocali e tende a spostare l'intera laringe verso l'alto; tutta la colonna di fiato tenderà quindi a sollevarsi. E' il cosiddetto spoggio e spiega perché alcuni insegnanti siano terrorizzati (e terrorizzanti) dal sollevamento della laringe. Ma questo è un effetto! la causa è data dalla spinta, quindi dall'allievo e indirettamente dallo stesso insegnante. Inoltre il cantar forte comporta un considerevole aumento della pressione respiratoria che insisterà sul diaframma, il quale reagirà ancora una volta sollevandosi, quindi nuovamente un possibile spoggio della voce. Gli insegnanti che insistono su questa strada non potranno che proporre, come "controffensiva" al sollevamento del fiato-diaframma, il "premere giù", quello che credono sia l'appoggio. L'appoggio in realtà non richiede un bel niente, solo di non essere provocato. E' la parola scolpita, detta con tutta la bellezza e l'espressività che le compete a stimolare le migliori condizioni affinché la voce non perda la propria ricchezza e sonorità, scevra della minima spinta. Quando si saranno consolidate le condizioni del perfetto parlare musicale, o canto, quando tutta la voce suonerà limpida fuori dal proprio corpo, vorrà anche dire che tutto il complesso e meraviglioso, elastico, apparato vocale (compreso il  respiratorio) avrà guadagnato quella condizione olistica di interdipendenza e interrelazionalità che unifica tutto creando un risultato esemplare. La creazione è sempre il raggiungimento di un'unione.
Allora perché si verifichino le condizioni ideali per un elevato canto, bisogna andare in una direzione d'amore; l'amore rifugge le violenza, lo sforzo, l'opposizione, ma è sinonimo di libertà, di dolcezza, di rilassatezza, di armonia e accordo. Dunque far sì che il fiato "violenti" le corde vocali, o che si cerchi di imporre con mezzi vari al diaframma di restare basso, non potrà MAI e poi MAI creare le condizioni per un canto che neanche approssimativamente possa definirsi artistico. La voce del sospiro, del minimo fluire, è quella che getta le basi del grande canto. Schipa lo capì molto bene; in fine carriera si permetteva di cantare praticamente gran parte delle opere in una sorta di falsettone, che peraltro nessuno riconosceva, mettendo a piena voce solo i momenti clou dell'opera. Cioè si rese conto che quando la voce era "ben messa", non c'era alcun bisogno neanche di dar "peso", poteva davvero soltanto parlare, dando un po' più di spessore alle arie più impegnative. Ma il suo canto è stato fino agli ultimi istanti un canto di grande musicalità e interesse profondo, perché metteva sé stesso in tutto ciò che diceva. Allora ripeto ancora fino alla consunzione: togliete! Non spingete, non date volume e forza al canto, ma assottigliate, rimpicciolite, sfumate, ma senza togliere il senso più vero di quanto dite.

sabato, settembre 30, 2017

Col sorriso d'innocenza

Come d'abitudine prendo a prestito il titolo d'un aria d'opera (in questo caso dal Pirata di V. Bellini) per affrontare un argomento relativo alla vocalità.
Non solo nei trattati di canto, anche antichi, si parla di cantare "col sorriso", ma è tutt'ora una pratica piuttosto diffusa (poi c'è chi parla di sorriso e basta e chi parla di sorriso "interno", ma non starò a commentare in merito). Vediamo un po' come stanno le cose.
La domanda cui rispondere è: cos'è l'articolazione. Si parla di articolazione (legata alla parola) riferendosi alla possibilità di movimento delle parti mobili della bocca e della parte superiore del cavo orale (mandibola, lingua, velo pendolo, faringe...) che danno la possibilità all'uomo, in relazione ai movimenti della laringe e alle sue capacità foniche, nonché al relativo fiato alimentante, di emettere fonemi anche continuativamente.
Quando si parla di questo si trascura, in genere, di prendere in considerazione il ruolo fondamentale svolto da gran parte della muscolatura facciale, in particolare le parti adiacenti le labbra (giustamente i "risori") e i muscoli zigomatici, che nella maggior parte delle persone sono alquanto deboli, dormienti, sottoutilizzati, mentre durante la fonazione moltissimi fanno un uso spropositato, e non utile anzi negativo, dei muscoli della fronte (frontali). Dunque, al di là di implicazioni più strettamente legate alla produzione vocale, che vedremo, i muscoli compresi tra il risorio e gli zigomatici, quindi nella parte centrale del volto, sono da tenere in costante allenamento in quanto contribuiscono, non solo secondariamente, all'ottimizzazione dell'articolazione e dunque alla perfetta pronuncia (anche una masticazione molto accentuata mette in forte movimento questi muscoli, e può risultare un utile esercizio).
Possiamo notare che quando facciamo un bel sorriso (il che non è da tutti, ci sono persone che devono fare sforzi enormi per arrivare a fare un sorriso degno di nota), stiriamo le labbra orizzontalmente e il labbro superiore e gli zigomatici si sollevano e si spostano lateralmente verso l'esterno. Anche quando diciamo la I correttamente otteniamo, o dovremmo ottenere, lo stesso risultato. Sappiamo che la I è la vocale con il colore più chiaro, e questo è dovuto al fatto che la parte anteriore della bocca è molto stretta a causa del sollevamento estremo della parte anteriore della lingua (esclusa la punta), ma anche al fatto che le corde vocali si tendono e si assottigliano, e per far ciò la laringe deve sollevarsi per trovare più spazio nel cavo faringeo che è più largo nella parte superiore. Incidentalmente notiamo che questo va in conflitto con il consiglio di tenere bassa la laringe di alcuni insegnanti di canto, impedendole di svolgere correttamente il proprio lavoro. Il movimento muscolare facciale è dunque anch'esso in relazione con gli altri elementi coinvolti nell'articolazione e nella produzione verbale, e ne orienta i movimenti.
Tutte le vocali hanno delle "forme chiave", su cui sono tornato diverse volte in questo blog, che dobbiamo conoscere e praticare in quanto il fiato deve relazionarsi ad esse per alimentarle in modo perfetto. Queste forme non sono però né rigide né univoche (pur essendoci, per ciascuna vocale, una sola emissione che possiamo definire pura), a causa dei diversi colori che possiamo usare e che modificano variamente gli elementi articolatori. Noteremo allora che se intendiamo scurire anche solo leggermente il colore, la posizione a sorriso della I muterà: gli zigomatici scenderanno e le labbra da orizzontali si protenderanno verso una forma a imbuto. Dunque, ricordando che ogni vocale può avere un colore chiaro e uno scuro, noi possiamo dire che volendo esaltare il colore chiaro delle vocali lo possiamo ottenere producendo quella vocale sul sorriso. Qui entriamo in una trattazione più profonda: perché si dovrebbe chiedere di esaltare un determinato colore? Anzi, dovremmo chiederci: perché gli insegnanti di canto, compresi i più antichi trattatisti, chiedevano questo? e perché? Ancora una volta arriveremo alla conclusione che tutto ciò che facciamo nei nostri esercizi ha come scopo l'educazione e la disciplina respiratoria. Come abbiamo visto la corretta emissione della vocale I ci porta al sorriso, e conseguentemente a un restringimento dello spazio orale e al sollevamento della lingua. Questo comporta anche che il flusso aereo dovrà percorrere un ristretto spazio lungo il palato e andrà a infrangersi contro l'osso superiore mandibolare (o palato alveolare), per poi uscire attraverso un ristretto canaletto "a cucchiaino" che si forma nella parte centrale della lingua che poggia contro i denti inferiori. Questa "postura" è possibile utilizzarla anche per la produzione di altre vocali in color chiaro; la é, in primo luogo, che della I è l'immediata succedanea in quanto a chiarezza, poi la A, la O, la è e la U. In particolare può suscitare perplessità pensare alla produzione della A, che richiede normalmente un'apertura considerevole. Infatti non dobbiamo pensare che sia corretto dire una A sul sorriso "stretto". Dobbiamo però, come si è detto più volte, separare la fase di apprendimento da quella poi di pratico e definitivo utilizzo. L'esercitarsi a produrre le vocali con il color chiaro, cioè col sorriso, può avere un'utilità. Intanto il fatto che può essere necessario anche in fase pratica cantare sul colore chiaro, ma nel nostro caso parliamo di una utilità strettamente vocale. Quando noi passiamo da una vocale chiara e stretta come la I o la "é" a una più ampia, come la A, o più scura, come la "è" o la "O", nella normalità dei casi si può produrre una "caduta" sonora, cioè il flusso fiato-suono dalla sommità orale, cioè contro il palato, seguendo la discesa mandibolare, scende anch'esso perdendo, anche solo parzialmente, quell'appoggio sull'osso mandibolare o palato alveolare che assicura anche un corretto appoggio diaframmatico e una omogeneità di emissione. Da questa situazione, che potremmo dire estrema, di chiarezza sonora, si potrà poi passare a una soluzione più completa, cioè mantenere il sollevamento dei muscoli zigomatici, ma aprire anche la bocca correttamente. In questo modo noi avremo due conseguenze positive: manterremo la linea del flusso aereo-sonoro alta, contro il palato, manterremo una componente di color chiaro, che privilegia la ricchezza armonica (in quanto l'osso mandibolare si comporta come un "ponticello" che diffonde le vibrazione a tutte le ossa e gli spazi del viso) e l'appoggio, rendendo nel contempo indipendente la mandibola nei suoi movimenti che dovrà adeguarsi alle forme delle diverse vocali. Durante il canto si potrà, poi, mantenere la postura "a sorriso", sempre a patto che sia una posizione temporanea.
Vediamo le controindicazioni e le attenzioni da tenere.
La I e il color chiaro, per il fatto di richiamare la laringe verso l'alto, possono anche indurre un sollevamento del diaframma, per cui quanto ho scritto sopra è da esercitare non nella primissima fase di studio, ma quando l'insegnante riterrà che si sia raggiunta una accettabile indipendenza della laringe.
Il sollevamento degli zigomatici in soggetti (o in momenti) particolarmente tesi, può comportare anche una tensione nei muscoli discendenti fino al collo, per cui occorre osservare che invece la testa, il collo, il petto, siano sufficientemente rilassati e liberi.
Questi esercizi non devono indurre a posizioni o a espressioni innaturali, rigide, stereotipate, smorfie. Ogni espressione che vìoli queste regole porterà a cattive emissioni e quindi non a progressi positivi. Quello trattato è un capitolo piuttosto complesso e delicato; dovrei dire forse molte altre cose, ma il post è già fin troppo lungo. Si segua sempre con molta prudenza quanto scritto.

mercoledì, settembre 13, 2017

Addio del passato

I cantanti del passato possono interessarci sotto due aspetti: uno "nostalgico" e uno "esemplificativo"; l'uno potrebbe non escludere l'altro. Credo che il primo sovrasti decisamente il secondo come quantità di persone che si affidano ai ricordi, con un particolare peggiorativo, però, cioè che coloro che hanno una forte nostalgia per qualche cantante del passato, ne vorrebbero imporre anche un ruolo esemplificativo, che in molti casi non c'è e scatena discussioni e polemiche anche violente. Gli esemplificativi "puri", invece, solitamente hanno un parterre molto più ridotto e meno fanatizzato e riconoscono eventuali carenze e limiti. Se prendiamo Schipa, ad es., i suoi sostenitori ammettono senza problemi che aveva limiti in basso e, specie dopo circa metà della carriera, anche sugli estremi acuti, nonché che il timbro non fosse particolarmente pregiato. Lo stesso accade per Pertile e persino (molto meno perché qui si sovrappongono i due "eserciti") con la Callas. Si può pensare che quasi tutti coloro che amano l'opera abbiano qualche cantante nel cuore, però per chi studia il canto sarebbe molto opportuno, e so di chiedere un sacrificio e uno sforzo non da poco, dovrebbero imparare a distinguere i cantanti esemplari da quelli appariscenti, sicuramente con doti importanti, capaci di suscitare entusiasmo fino al fanatismo, ma difficilmente individuabili come esemplificativi, in quanto le doti, gli attributi soggettivi e innati, sovrastano le peculiarità dovute a studio, impegno, applicazione duratura ed evolutiva. Il mi piace va sempre bene, ma occorre maturare una posizione critica serena e coscienziosa; questa è una dote importante anche per poter crescere come cantanti, ma anche solo come semplici appassionati.

martedì, settembre 12, 2017

Oggettivizzare il gesto

Il M° Sergiu Celibidache esortava gli allievi di direzione d'orchestra a "rimanere oggettivi"; cosa significa?
La gran parte dei direttori tende a muoversi sguaiatamente e molti tendono a seguire il gesto delle braccia anche con movimenti della testa in avanti (specie sul battere); questo modifica, e non poco, la qualità dell'ascolto in quanto le orecchie (che come è noto si trovano ai lati della testa, e qualche battuta di spirito invita a non considerare questa come mero divisore tra gli organi di ascolto) avvicinandosi e allontanandosi dall'orchestra percepiscono irregolarmente gli eventi sonori. Questo col canto c'entra poco, però la riflessione mi ha suggerito comunque una importante analogia, cioè disporsi ad ascoltare la propria voce "oggettivamente", cioè ascoltarla come provenisse da una fonte esterna a noi. In passato avevo invitato a cantare come se fossimo davanti a un microfono, e quindi come venisse amplificata e diffusa da altoparlanti indipendenti da noi (e penso fosse un buon consiglio); più seriamente è giusto considerare l'ascolto della propria voce come staccandosi da essa, considerarla un fenomeno cui noi diamo inizio ma il cui controllo deve essere auditivo-mentale e non fisico. In questa direzione forse saremo anche più pronti a evitare quel ricorrente e radicato difetto della spinta, in quanto ci accorgeremmo ben presto della pressione indebita che agisce sul suono e sulla voce, che impedisce quella piacevole emissione di armonici e il crearsi di quella massa sonora soffice e vibrante che costituisce la parte nobile della voce e del canto (ma che è indispensabile anche per l'arricchimento dello squillo, del "metallo" nell'emissione forte e nell'accentazione eroica). Disporsi a un ascolto "oggettivo" darà anche modo di educare ed evolvere l'orecchio nei confronti degli altri cantanti.

sabato, settembre 09, 2017

Come canta...?

Una domanda che mi viene posta spesso è "come canta Tizio, Caio o Sempronia?" La domanda ha di solito un duplice valore; avere un parere "esperto" su di un determinato cantante, ma anche, e talvolta soprattutto, mettere a confronto il proprio modo di sentire con quello del maestro. Può anche esserci un terzo motivo, più nascosto, e cioè capire se un proprio idolo, un cantante che abbiamo apprezzato e forse anche amato (talvolta adorato) è in linea con la scuola che si frequenta. Alcune volte serve a tranquillizzarsi, altre volte a giudicare la scuola (e quindi anche a lasciarla se il giudizio non collima con i propri sentimenti). Gira gira si finisce sempre per arrivare a determinati nomi, di un passato non lontano o del presente: Del Monaco, Corelli, Callas, Tebaldi, Di Stefano, Gobbi, Bastianini, Siepi, Cristoff, Simionato, Barbieri, poi Pavarotti, Domingo, Ricciarelli, Sutherland, Milnes, Ghiaurov, poi qualcuno più recente. In genere a ogni cambio generazionale si riscontrato peggioramenti e miglioramenti. Nella generazione di Del Monaco, quindi anni 50-60, l'attenzione musicale e filologica era piuttosto bassa, le esecuzioni piuttosto sommarie, con tagli, adattamenti, interpolazioni, carenze sul piano dinamico ed espressivo. Era però una generazioni di voci straordinarie, di personaggi esaltanti. Quella successiva è stata molto più corretta sul piano esegetico; voci importanti anche se meno imponenti e doviziose. La tendenza rimane più o meno la stessa oggi; molta attenzione (per quanto è possibile a voci messe non bene) allo spartito, riapertura dei tagli, correttezza esecutiva di cadenze e quant'altro in linea con l'epoca di composizione. Qualche voce importante e poi una pletora di voci più o meno corrette, ma che dicono poco, perché impastoiate a districarsi nei labirinti foniatrici. Però, come notavo nel precedente post, c'è un ritorno nostalgico (sopito evidentemente negli anni scorsi) a un vociferare plateale (anche se non sempre la voce è paragonabile a quella dei "mostri" di cinquant'anni fa.
Ora, volevo soffermarmi su un punto. Qualcuno ha scritto che Pavarotti era ingolato. Su questo ritengo di dire la mia. Nel canto degli ultimi cinquant'anni, è quasi sicuro che un cantante totalmente privo di ingolamento, come furono Schipa, la Pagliughi e una quantità notevole di altri cantanti di primo Novecento, non ci sia più stato. Detto questo la tara la dobbiamo fare, perché mandare tutto all'ammasso non è una buona politica. Pavarotti aveva una voce fantastica, di notevole bellezza e sonorità. Aveva dei limiti, sicuramente (era una voce "monolitica", incapace di autentiche variazioni; lo dimostrò chiaramente quando si confrontava con cantanti di musica leggera o rock; lui imperterrito aveva sempre "quella" voce), di natura musicale e gestuale, soprattutto, ma qualche limite lo denunciava anche sul piano strettamente vocale (ho analizzato in questo blog alcune arie dove ho analizzato anche sue prestazioni). Nel periodo tra la fine degli anni 70 e la metà degli 80 la voce manifestava carenze, difficoltà; fin dagli anni 60 andava incontro non rarissimamente a "stecche", che aumentarono in numero, tant'è che fu ripreso e contestato più volte specie in Italia, da cui sembrava volersene andare. Qui c'è anche tutta la questione personale; dopo alcuni anni di serio e umile professionismo, i guadagni si alzavano enormemente, grazie anche alle numerose incisioni (e una voce sicuramente fonogenica) e incominciava a diventare "personaggio", spesso ritratto in cronache, in tv e giornali non sempre per motivi artistici. Anche il film girato (e notevole flop) è il segno di questa fase. Litigava spesso con registi e direttori, finché riuscì, almeno in molte occasioni, a imporre i "suoi" registi e i suoi direttori e fino poi a relegare la sua attività a concerti. Dalla fine degli anni 80 dopo essersi sottoposto a una "cura" vocale, la voce tornò in buona parte a una maggior correttezza e omogeneità. Quindi su Pavarotti se ne possono dire molte, ma personalmente non scriverei mai che era ingolato, perché, pur non negandolo in assoluto, la percentuale era talmente bassa da potersi considerare trascurabile, per il mondo in cui viviamo. Se consideriamo che voci realmente ingolate, come Domingo o la Horne, sono idolatrate da chiunque, critici, tifosi e (nel primo caso) persone del tutto digiune di canto e opera, perché dobbiamo accanirci su questo cantante tutto sommato con buone qualità e qualche freccia straordinaria al suo arco? Ne avessimo di Pavarotti, oggigiorno... Ci sono sicuramente cantanti con migliori qualità musicali e teatrali, ma egli ha saputo utilizzare la sua bella voce in un repertorio non sterminato ma comunque considerevole con grande profitto. Nella Luisa Miller, Ballo in maschera, Boheme, Trovatore, Favorita e in un altro buon numero di opere ha potuto fare la differenza rispetto ai suoi colleghi e talvolta anche fare esecuzioni di riferimento storico.

sabato, agosto 19, 2017

Ascoltar voci

Da sempre andare ad ascoltar l'opera significa più o meno indirettamente giudicare i cantanti. E fin qui ci può stare; in ogni attività di spettacolo chi è al centro dell'attenzione viene in qualche modo giudicato, o valutato. Da una cinquantina d'anni ormai, però, il giudizio non è più generico ma circostanziato sulla vocalità, al punto che gli aspetti che più dovrebbero emergere, cioè l'adesione musicale e teatrale ai personaggi, alle scene, al contesto drammaturgico, spesso sono totalmente ignorati. Giorni fa mi è stato mandato un filmato di un "sì vendetta" del Rigoletto per avere un parere sul soprano. A parte che era dal vivo in un teatro all'aperto, ripreso piuttosto da lontano, quindi l'audio non era buono, ciò che mi ha colpito di quel filmato è stata la prova censurabile del baritono (notissimo, ma non faccio nomi), non solo del tutto fuori rispetto a quanto scritto nello spartito, ma che non si potrebbe definire che caciarone e rozzo. Ebbene, sotto il filmato una sequela di commenti uno più esaltato dell'altro. Mi guardo bene dallo scrivere in quel luogo; darei solo adito a ulteriori e inutilissime polemiche. Ma ancora una volta devo constatare che il mondo dell'opera è ancora avvolto in un manto di profonda ignoranza e superficialità. O per meglio dire: rispetto a cinquant'anni fa il mondo operistico si è spaccato in più parti; un forte movimento di "renaissance" del teatro rossiniano, bellin-donizettiano ma anche più antico, ha influito indubbiamente sul gusto generale per cui anche l'esecuzione di opere di epoca successiva se n'è avvantaggiata, ma ho il fondato timore che sia solo apparenza, anche talvolta mal sopportata, da un lato, e intransigente bacchettonismo dall'altro. Cioè c'è un pubblico che ama lo sfrenato verismo; che il cantante urli, imprechi, ridacchi, faccia smorfie e inventi note va più che bene e non accetta di buon grado la critica che quel modo di cantare stia andando contro la musica e il buon gusto. Dall'altro ci sono quelli che cassano quasi ogni voce per tutta una serie di difetti che riscontrano... salvo il vero! Ormai non c'è più appassionato d'opera che non commenti un'esecuzione canora dicendo: "eh, ma il passaggio..." "eh, ma è indietro", "gutturale", "in maschera (o no)" e via dicendo. In buona sostanza manca, come accade spesso, equilibrio, buon senso. E sopra a tutto manca l'educazione uditiva. In questi giorni è stato scritto su un social che Pavarotti era ingolato. Su questo magari tornerò in un prossimo post, però siamo su quel punto, non si può "sparare" in questo modo senza un po' di cautela, perché se no Domingo cos'era? Kaufmann com'è? e tanti tanti altri. Secondo me non è buona comunicazione, non è buona informazione. Piuttosto si cerchi di mettere un freno a questa dilagante mania di voler dare giudizi tecnico vocali, e non solo dagli appassionati ma anche dagli "addetti ai lavori". Laddove si fa recensione, critica giornalistica, si usino gli argomenti e i linguaggi propri del giornalismo e dell'opinione pubblica, cioè dati che possono arrivare a tutti e si faccia informazione corretta, cioè si dica: "in quel punto il cantante ha omesso di seguire le indicazioni dell'autore e anzi le ha stravolte in nome di una "interpretazione" volta al facile applauso ma carente e molto discutibile sul piano musicale, del buon gusto e della verità teatrale". Se un determinato acuto è venuto bene, nel senso che era "bello", sonoro, piacevole e intonato, cosa interessa se secondo il critico era indietro o non ben "passato", non ben in maschera, e via dicendo? Questo, se è vero, sarà un problema del cantante che si troverà poi in difficoltà, ma non sono cose da scrivere su giornali, riviste o anche in articoli on line di natura generale; tutt'al più quegli approfondimenti potranno riguardare luoghi deputati alla comunicazione didattica sul canto (tipo i blog).
Un allievo che ascolta voci, volendo anche trarre partito dall'insegnamento che riceve, cosa fa e cosa dovrebbe fare? In genere "cerca", cioè ascolta voci cercando di sentire tutto ciò che non va. Direi che non è una buona prassi. Come dico insegnando, "non cercare", "chi cerca non trova". Intanto il modo migliore per occupare il tempo con gli ascolti dovrebbe consistere nel sentire GRANDI voci (cioè buone), quindi soprattutto quelle del passato, facendosi consigliare dal maestro (eventualmente facendo confronti con altre). L'orecchio si affina col tempo man mano che progredisce la propria vocalità, quindi non si abbia fretta di sentire tutto, come non si deve aver fretta di emettere correttamente.

domenica, agosto 13, 2017

Tempo e facilità

Il problema che si incontra fatalmente dopo un po' di tempo che si studia canto è chiedersi questo cammino quanto è lungo (non sarà uguale per tutti) e quanto facile o difficile. La questione riguarda i NOSTRI tempi. I due vettori rappresentanti tempo e facilità oggi procedono in direzioni opposte e inversamente proporzionali! Si vogliono risultati rapidi, in poco tempo e che non impegnino troppo, soprattutto la mente. Dire che lo studio del canto investe la filosofia, o meglio la gnoseologia, la Conoscenza, non solo stupisce molti, ma li allontana. Da ormai molto tempo non solo lo studio ma il canto tout cour è diventato un allenamento meccanico quasi di tipo sportivo. Le Arti, lo sappiamo, si sono coltivate, nei periodi d'oro, a "bottega", cioè frequentando giornalmente il maestro, guardando lui, guardando gli allievi più avanzati, iniziando a fare cose minime poi sempre un pochino più complesse, avanzando fin quando la sete di imparare si esaurisce, nei tempi dettati dalla qualità dei risultati, che saranno naturalmente diversi a seconda delle caratteristiche dell'allievo, il quale ha sempre fretta di fare cose importanti, "difficili", di misurarsi con impegni grandi. Qui sta l'intelligenza sua e del maestro, che deve sapere quando liberarlo dal lavoro di bottega, quando lasciarlo andare, non necessariamente perché è bravo, ma semplicemente perché quello è il suo limite, quindi inutile che prosegua. Il tempo per apprendere davvero un'arte come il canto artistico, ammesso che ci si trovi con un soggetto che abbia le caratteristiche per poterla apprendere in pieno, sarà comunque sempre lungo e il cammino sempre impegnativo, che non vuol dire né difficile né complicato, anzi proprio il contrario. La prima virtù dev'essere la pazienza estrema. Avere cura di dire con somma grazia ogni sillaba, ogni parola, ogni vocale in ogni gradazione dinamica, dal sospirato senza suono alla voce piena. Io rimasi più che meravigliato quando sentii il mio maestro che faceva dire parole e frasi in assenza di voce, solo col fiato, e correggeva, spesso imputando che spingevano! Lì per lì mi pareva folle che si potesse spingere non cantando veramente. Eppure dopo un po' cominciai a sentire e capire, soprattutto capii che se non si è grado di dominare il fiato puro lo si sarà ancor meno nel momento in cui si metterà anche solo un pochino di voce. Ma il lungo tempo non è solo questo. Imparare un'arte significa trasformare il proprio fisico, così come la Conoscenza ci ha trasformato nei millenni. Soprattutto trasformare il proprio fiato o meglio la propria respirazione. Non esiste una procedura meccanica che possa mettere il fiato in condizioni di sostenere il canto artistico, esiste solo una disciplina e una esigenza personale che PUO' far sì che un soggetto, in un tempo lungo, elabori e acquisisca QUELLA condizione respiratoria, che non è mai naturale, cioè non può esistere nelle condizioni normali di vita, in quanto non necessaria alla sopravvivenza e alla vita di relazione dell'uomo di questo tempo, quindi da sviluppare come evoluzione personale, il che significa trasformarsi in un uomo "plus", cioè una persona apparentemente uguale a tutte le altre ma che in realtà ha un senso in più, cioè una respirazione (e di conseguenza una voce) artistica, condizione questa che resta nel soggetto per sempre, senza bisogno di allenamenti quotidiani. Da qui si può capire: quanto tempo ci vuole per un'evoluzione? In teoria diverse generazioni, ma l'esigenza personale e le condizioni di studio possono ridurre questo tempo a pochi anni, ma non ci si illuda. Occorre sempre un alto grado di umiltà che ci faccia comprendere realmente quando si è fuori e quando dentro la verità.

sabato, luglio 22, 2017

"... libero e lontano..."

Dalla celebre aria del tenore nella Fanciulla del West di Puccini, traggo queste due parole, libero e lontano, che ben si attagliano alle caratteristiche che deve avere il canto corretto. La libertà è la più importante meta di qualunque artista, se vuole poter trasmettere il messaggio spirituale di cui è portatore, e come tale è di difficilissima conquista; l'essere "lontano" è la condizione che consente innanzi tutto di trovare questa libertà, e di "staccarlo" dal nostro corpo, i cui legami troppo saldi lo impediscono. Il legame tra la vocale espressa e il nostro corpo deve essere costituito esclusivamente dal tenue flusso aereo e da quello mentale. Se oggi la gran parte degli insegnanti di canto si occupa di movimenti e posizioni interne agli spazi e agli apparati vocali, chissà come ci resterebbero male nel comprendere che invece è proprio la sensazione di lontananza da sé, dal proprio corpo, la chiave per una corretta emissione. Sentire la propria voce nello spazio, riconoscerla e riconoscere la giustezza, la correttezza, la bontà di quanto si va esponendo in termini musicali e testuali è il dato essenziale. Quanto più avviciniamo la pronuncia a noi (quando addirittura non la facciamo rientrare), quanto più rischiamo di "ghigliottinarla", di opacizzarla, intorbidirla, impastarla, manipolarla e quindi perdere ogni possibilità di liberazione nello spazio, dove può risuonare ampia e rapida.

martedì, luglio 18, 2017

L'acqua pura di sorgente

Quasi tutti i bambini preferiscono l'acqua gassata (e quindi anche tutte le bibite gassate). Anch'io seguii questa prassi e fin verso i 20 anni bevvi esclusivamente acqua addizionata (le bevande già le evitavo). Dopo un lungo periodo dominato da costanti mal di stomaco, per un caso constatai che se bevevo acqua naturale il mal di stomaco non mi veniva, per cui da quel momento abolii l'uso di acqua frizzante. Nei primi tempi bere acqua naturale mi fece un brutto effetto, perché mi sembrava di bere... niente. Quell'assenza di "friccicore" in bocca mi lasciava alquanto deluso. Ci volle tempo, ma alla fine non solo l'acqua naturale mi piacque, ma cominciai anche a riconoscere qualità diverse di acque e quindi a scegliere le marche che più mi soddisfacevano, e a trovare pessima l'acqua gassata (il secondo passo fu quello di evitare il frigo). Un discorso simile vale per il pane. I miei genitori erano fiorentini, e ogniqualvolta si andava a Firenze, ovviamente si faceva di uso del pane locale, che come è noto è privo di sale. Anche in questo caso la mancanza di sapore mi lasciava disgustato. Poi, prima di ripartire, i miei genitori ne facevano scorta (è anche un pane che dura parecchio tempo) e quindi dovevo continuarlo a mangiare per diversi giorni. Col tempo imparai ad apprezzare molto questo pane, che mi lasciava gustare il sapore genuino del companatico, senza alterarne il gusto. Questo preambolo per dire cosa? Che a istinto piace sentire una voce ricca di timbro, e per accontentare questo superficiale appetito acustico, ci si sforza di creare timbro, e questo vuol dire escogitare manovre, contorsioni, trucchi, che poi in un modo o nell'altro possiamo riassumere nel verbo: ingolare! La maggior parte degli insegnanti volenti o nolenti, in buona o in mala fede, consapevolmente o meno, portano gli allievi fin dalle prime lezioni a ingolare. Questo crea in chi ascolta (con un basso gradiente acustico-culturale) l'idea che l'allievo sia sulla giusta strada, in quanto ha il timbro "lirico" (ho sentito un'insegnante di musica dire a una classe che l'opera si chiama lirica perché il canto ha questa particolarità (cioè il timbro)! Non le è passato per la mente che forse è il testo poetico l'origine di tal nome!). Allora uno dei problemi che oggi si incontrano quando si conduce un allievo, specie se ha già iniziato lo studio in altre scuole, per la giusta strada, è che inizialmente, e per un bel pezzo, non ha contezza dell'arricchi-mento graduale della voce, e spesso e volentieri, timidamente o decisamente chiede: "sì, ma la voce lirica?". E in linea di massima già il fatto di comprendere troppo il testo a molti fa l'effetto di perdere timbro. Insomma, andare a educare fiato e voce in modo corretto fa lo stesso effetto di chi di colpo passa dall'acqua frizzante a quella naturale: appare priva di gusto e di sapore. Però in linea di massima a chi ha una voce sufficientemente ricca, il timbro verrà fuori, anche molto bello e pieno di screziature, senza perdere l'aura personale, cioè il PROPRIO timbro, che lo rende unico. Per molti, invece, il timbro non deve essere troppo personale, ma essere "quel" timbro, uguale a tutti gli altri, purché "lirico". Un po' come mettersi una divisa, così sappiamo se sei un militare, un carabiniere, ecc. E infatti una moltitudine di cantanti risultano irriconoscibili e uguali a mille altri. Nei maschi un po' meno perché il timbro di petto, quello della voce parlata consueta, è utilizzato in maggior percentuale. Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte a un'analogia con l'acqua; questa volta il suggerimento è quello di pensare proprio all'acqua pura di fonte, leggerissima quando si beve, fresca, trasparente, piena di screziature, limpida, cristallina, gioiosa, che da l'idea di salute, di vita, di piacere. L'ingolamento e ogni timbratura artificiosa intorbida la nostra voce-acqua, la inquina, l'appesantisce, la rende opaca e impedisce la trasmissione di messaggi, mancando la trasparenza e la fluidità.

martedì, luglio 11, 2017

Il bruco e la farfalla

Anni fa un insegnante di canto paragonò l'insegnamento del canto alla trasformazione di un bruco in farfalla. Sulle pagine del blog risposi confutando questa metafora ("Arte e natura", agosto 2011), in quanto fu proposta come atto naturale. Viceversa il processo che porta una persona ad apprendere ad alti livelli un'arte come il canto non ha carattere naturale, non riguarda tutta la specie per cui è evidente che mentre tutti i bruchi hanno come destino il diventare farfalle (non è una scelta), il diventare cantanti "virtuosi" è di poche persone, che devono intraprendere un duro e serio percorso educativo che attiene poi a intuizioni e studi di un numero ancor più ristretto di persone, i maestri. Detto e puntualizzato ciò, si potrebbe concedere che in quei soggetti che si sottopongono alla dura disciplina, tale trasformazione del fiato sia paragonabile alla mutazione bruco farfalla. Ma anche in questo caso, a voler essere pignoli, la metafora non ci sta. Infatti questo particolare sviluppo respiratorio non è da considerarsi una mutazione prevista dalla Natura, ma una evoluzione, cioè qualcosa che solo potenzialmente alberga nell'uomo, come una necessità oltre le condizioni di vita contingenti, che solo una forte esigenza personale e spirituale può innescare, e infatti noi la definiamo una "elevazione" del soggetto, che si ritroverà non una tecnica, cioè una meccanica capace di fargli fare cose più complesse, ma una capacità globalmente avanzata, cioè qualcosa che non investe in termini di abilità il saper fare qualcosa sfruttando delle nozioni apprese (una sorta di manuale), ma si trova a saper gestire qualcosa del proprio corpo e della propria mente a un livello diverso, non comune, pur essendo presente a livello potenziale in tutti. E' credenza diffusa che la voce cantata e il parlato siano cose diverse, e questo ha a che fare con l'idea che alla base del canto (soprattutto lirico) vi sia il suono, pur basando gran parte della tecnica sul "vocalizzo", cioè su una o più vocali, però in un certo senso negando le stesse vocali, perché ridotte al rango di suoni, vale a dire imprecise e vaghe emissioni sonore, che al massimo assomigliano a vocali (cosa che può succedere anche agli animali, che emettono suoni, privi di significato, ma che possono sembrare vocali, e talvolta persino brevi parole). Se il suono è da considerarsi una qualificazione del fiato attraverso uno strumento (la laringe) (e che si produrrà in buona parte internamente), la vocale, specie se cantata, è da considerarsi una ulteriore (doppia, quindi) qualificazione attraverso un complesso apparato composto da tutto l'insieme degli organi, delle forme, dei tessuti e delle ossa che definiamo articolatorio-amplificanti (che per arrivare a definizione completa daranno il loro apporto esternamente), i quali agiscono in virtù di una conoscenza già presente nell'uomo, ma che dobbiamo sviluppare, riconoscere, portare a coscienza affinché possa concedere il massimo delle sue possibilità. Migliorare il fiato attraverso tecniche può essere un valido esercizio, sempreché le stesse non creino situazioni di conflittualità e quindi di reazione istintiva, ma non potranno mai essere realmente il percorso di accesso all'arte vocale. Il fiato è una componente con una missione specifica, lo scambio gassoso, e incidentalmente (quindi secondariamente) meccanico (l'erezione del busto e la collaborazione allo sforzo) con procedure ben definite. Il parlato non incide su queste procedure, se non occasionalmente, data la brevità dei periodi di presa del fiato, la scarsa incidenza dinamica (intensità e volume), la limitata estensione e la solitamente modesta qualità articolatoria. Il canto, specie se tendente a caratteristiche elevate, come la dinamica, l'espansione, l'estensione, la precisione articolatoria, vogliono, viceversa un fiato con caratteristiche del tutto diverse, che sappia modellare e "suonare" gli organi preposti con libertà, con padronanza, semplicità, ricchezza, ampiezza di tutte le caratteristiche insite nel patrimonio musicale di cui il nostro spirito e la nostra conoscenza sono portatori. Questa ricchezza, però, non riguarda semplicemente tutti gli uomini; essi per poter guadagnare questa posizione, sempreché gli interessi, devono essere pronti a compiere un balzo evolutivo, o per meglio dire farlo compiere al proprio sistema respiratorio; esso stesso deve diventare canto in un continuum che dal nostro centro armonico ed eufonico (cuore, diaframma, polmoni, plesso solare...) si propaghi in tutto lo spazio esterno senza ostacoli di alcuna natura, vuoi fisica che mentale. Infatti troppo spesso si insiste sul "pensare" i suoni, le posizioni, la formazione stessa delle vocali, parole, ecc. Noi già sappiamo! dobbiamo lasciarci andare a far scorrere, a consentire quell'elasticità, quella fluidità e rilassatezza proprie del nostro corpo e dei nostri apparati. Ciò che deve sempre essere vigile è il nostro orecchio, il quale dovrà compiere anch'esso un'analoga evoluzione, per riconoscere e garantire la precisione e purezza di quanto emesso; da questo procederà la correzione AUTOMATICA, non voluta e fatta dalla mente (che è un operatore fisico), ma che farà il nostro pensiero profondo, la nostra conoscenza-coscienza man mano che si svilupperà. Sicuramente l'idea che dalla nostra voce naturale (bruco) possa prendere il volo un canto libero e leggero (farfalla) è una metafora piacevole e azzeccata; occorre però comprendere che tale evoluzione va saputa innescare e perseguire con pazienza.

giovedì, luglio 06, 2017

Del carattere

Così come ogni persona ha un carattere, questo si manifesta anche attraverso la voce. Il carattere può essere dolce, forte, autorevole, fragile, scontroso, remissivo, ecc. Prima ancora di queste declinazioni, ci sarebbe un carattere più netto: maschile o femminile. Non è questione di sesso più o meno evidente, sono caratteri che sono percepiti a un livello superficiale, e non necessariamente per colore. Il tenore, specie il tenore leggero, è considerato, nel maschio, una voce più tendenzialmente di carattere femmineo, oltreché per il colore più chiaro, in quanto più prossimo al falsetto/testa, che contraddistingue maggiormente la voce femminile. All'opposto, il contralto e talvolta il mezzosoprano son considerate voci, nella donna, più maschili (non per nulla frequentemente cantano ruoli maschili en travesti). Nel tempo questo ha dato luogo ad equivoci e a soluzioni vocali decisamente discutibili e, a mio avviso, anche ridicole. Il fatto che la voce tenorile sia più prossima al femmineo, non significa niente, se non fosse che una certa ideologia "machista" abbia preso sul serio questa caratteristica, e sia nata (in epoca in cui anche la politica e una certa cultura la enfatizzavano) una vocalità più "maschia" che poi possiamo sintetizzare col termine "affondo". Per la verità la questione possiamo già individuarla nel fenomeno Caruso. Il grande tenore napoletano, che sul finire dell'800 si esibiva con una normale voce di tenore di grazia, a causa di un'operazione alle corde vocali si scurì alquanto dando vita a quella vocalità che ben conosciamo. Per la verità sappiamo che i tenori baritonali già esistevano nel primo Ottocento, ma la pratica dell'epoca imponeva un approccio stilistico comunque molto garbato e un uso degli acuti sempre morbido e leggero. Caruso, per un'intuizione popolaresca formidabile, utilizzò invece la sua vocalità per rivestire i personaggi soprattutto delle opere veriste (anche rileggendo quelli dei precedenti decenni sotto quella chiave) e creando quindi la vocalità verista, nel bene e nel male. Ecco quindi che si delinea anche un carattere, che però non si sposa quasi mai con quello decisamente romantico dell'opera verdiana e men che meno con quello protoromantico o neoclassico dell'opera belliniana donizettiana o precedente. Se Caruso ci arrivò in parte per accidente, la stirpe affondista ci arrivò invece per volontà. Se questo approccio piuttosto monolitico, monocromatico, è sicuramente discutibile sul piano vocale (lasciando da parte Del Monaco, tutti i tenori successivi che hanno intrapreso questa strada accusano in modo imbarazzante la timbratura gutturale, l'impossibilità di ammorbidire e usare dinamiche sfumate), il problema più grave è di carattere musicale. La rigidezza vocale ma anche mentale di buona parte delle scuole che si ispirano a questa metodica, impone un deciso appiattimento di tutte le indicazioni dell'autore nonché un approccio sempre "arrabbiato", mai incline al dialogo comprensivo e alla pari. L'opera che a mio avviso ha sofferto e soffre tutt'ora di più, forse in modo irrimediabile, è l'Otello di Verdi, soprattutto a causa della personalizzazione estrema di Del Monaco e dei suoi emuli. Già a partire dal duetto del primo atto, "già nella notte densa", e in tutti i successivi, Otello non è mai realmente amante, innamorato; non riesce mai a sussurrare frasi d'amore, non riesce a dialogare con i suoi amici. E', come dice un noto comico di Zelig riferendosi agli automobilisti, "perennemente inc....ato". Questo è stato un grosso attentato alla musica di Verdi che poi si è diffusa su gran parte dell'opera in genere. Sfracelli si sono avuti anche su gran parte dell'opera Pucciniana, che solo in piccola parte può definirsi verista, e comunque la si chiami come si vuole, il sor Giacomo ha tempestato le sue partiture di piani e pianissimi, di "dolce", "teneramente" e via dicendo. Indicazioni che le voci legnose, stentoree, a senso unico, sono incapaci di cogliere e far vivere. Torno al tema dell'articolo. Ci sono stati alcuni tenori che non hanno goduto in natura di una voce di timbratura particolarmente virile, eppure hanno spopolato cantando ogni genere di repertorio, dal leggero-agile al drammatico. L'esempio secondo me più interessante è quello che ha offerto Giacomo Lauri Volpi. Contraltino, per essere precisi, acuto e anche acutissimo. Non ha disdegnato tutto il repertorio verista, ha cantato Otello, Fanciulla del West, ma restituendo anche alla sua giusta collocazione Puritani e Ugonotti, tanto per citare due titoli importanti. Non fu mai, che io sappia, accusato di affrontare repertorio non suo. Allora come si poteva permettere di eseguire tutto Verdi ma anche Mascagni, Leoncavallo, Puccini, Giordano, ecc.? Se c'è stato un cantante contro-affondista, è stato proprio lui, dove mai la laringe viene schiacciata producendo suoni gutturali e falsamente oscurati. Semmai prediligeva la corda sottile e l'uso di falsetti anche al limite del leggero. Ma, lo disse lui stesso, ciò che animava la sua caratterizzazione degli spartiti drammatici, era l'accento (in questo senso, pur parlando di una voce timbricamente opposta, condividendo il criterio con Carlo Bergonzi). Quindi ecco che ciò che caratterizza una voce, è il modo di accentare nella giusta direzione la vocalità, la musicalità. La Callas è inutile andarla a scomodare se era voce di lirico, leggero, spinto, drammatico o altra sfumatura dal punto di vista timbrico: essa aveva un'arte unica di accentare i suoi personaggi, sempre molto correttamente. Anche Schipa aveva un senso dell'accento esemplare, tant'è che fece venir giù il teatro San Carlo eseguendo Tosca; ma, potrà sembrare un paradosso, l'abilità di accentazione di Schipa la sentiamo persino nelle canzoni! Direi che anche Gigli aveva un senso dell'accento molto presente, ma credo che se retrocediamo non faremo altro che riconoscere che i cantanti di inizio 900 (Tamagno docet) non curavano quasi per niente un particolare colore per dare drammaticità, ma si basavano sempre sul giusto accento. Ma allora lo studio della musica, dello spartito, dello stile, penso che fosse ben altra cosa. Più veniamo verso di noi col tempo, più troviamo superficialità e grossolanerie. Cantanti che non hanno nessuna capacità (e volontà) di sfumare, di addolcire, di fraseggiare, ingolati come bestie, col suono legnoso piantato in gola, vengono osannati come maestri...

domenica, luglio 02, 2017

La "U" e il passaggio

Nelle voci grezze molto spesso la salita verso gli acuti è ostacolata da un incremento di impegno che può rendere quasi impossibile l'ascesa o generare una sorta di grido (i cosiddetti suoni aperti, intendendo con questa impropria accezione il "non passare", ovvero il proseguire col registro centrale). Alla base di tutto questo v'è l'erronea convinzione che il passaggio sia meramente una questione meccanica, ovvero ancora che esista perennemente una questione "passaggio". Come s'è già scritto a sazietà, i registri esistono (o non esistono) in base alle condizioni respiratorie del soggetto. Chi si ritrova un apparato respiratorio molto sviluppato avrà facilità nell'ascesa e potrebbe non incontrare alcuna difficoltà e quindi nessun passaggio; chi viceversa ha una condizione respiratoria piuttosto carente si troverà in grave difficoltà. Per superare questo ostacolo ovviamente la strada più corretta sarà quella di far sì che la respirazione si evolva e si sviluppi in senso vocale, come, del resto, dovranno fare TUTTI coloro che vogliono cantare a un livello artistico elevato, perché l'avere naturalmente una respirazione molto sviluppata, che può essere un fatto soggettivo, non significa averla relazionata al canto, (la qual cosa posso dire non poter accadere mai), quindi quella fortuna potrà funzionare per un certo tempo, anche parecchio, ma non per sempre, perché l'insistere con una pratica (canora) senza aver disciplinato l'elemento fondamentale che la consente a quel livello, cioè la respirazione, porterà piano piano a un'usura e a un aumento delle difficoltà che si concretizzeranno in: perdita degli acuti più estremi, difficoltà nel sostenere la tessitura, ondeggiamento della voce, inasprimento del timbro e altro. Coloro che non sono in grado di salire immediatamente sugli acuti, potranno dover affrontare anche il passaggio; non essendo sufficientemente relazionato il fiato per sostenere la piena vibrazione della corda di falsetto equiparandola a quella di petto, ci si dovrà esercitare con varie modalità al fine di disciplinare e far evolvere il fiato in quella direzione. Sappiamo che il parlato è il sistema principe; togliere il peso è altrettanto fondamentale, però questi mezzi solitamente preoccupano e spazientiscono gli allievi che non vedono mai l'ora di fare acuti estremi e forti. La teoria dell'oscuramento del passaggio (che non risale a Garcia figlio, che non ne parla affatto nel suo trattato) presenta qualche aspetto positivo e qualcun altro negativo. In primo luogo dobbiamo presentare una possibile contraddizione: noi sappiamo che lo spoggio della voce è un pericolo cui si va incontro in quanto l'istinto reagisce a un peso, una forza, che ritiene inopportuna, inutile (considerando il ruolo rivestito dall'istinto). Oscurare un suono vuol dire aumentare, mediante il colore, il peso, per cui rappresenta un ulteriore stimolo alla reazione. Infatti (particolarmente con l'uso della U) è possibile che nel momento in cui si arriva nella zona idonea al passaggio, l'aggravamento di colore invece di consentire il passaggio, lo annulla del tutto con un secco rialzamento della base. E' logico, quindi, che si dovrebbe far uso della versione chiara della U, ammesso che il soggetto la sappia emettere, anche perché lo scopo degli esercizi (evolutivo) va in direzione della creazione della "corda unica", cosa che può avvenire nel momento in cui le vocali sono correttamente emesse, cioè esternamente. Siccome la U richiede un colore oscuro per la sua formazione, le probabilità che anche la vocale (specie se eseguita con una volontà oscura) retroceda, sono elevatissime. E' possibile che in questo modo si mantenga un certo appoggio, ma ecco che si va verso un affondo, verso una pressione in basso su muscoli e cartilagini che noi stigmatizziamo. A questo punto mi astengo da ulteriori descrizioni e consigli, perché non si deve pensare a un "metodo", a una galleria di consigli e trucchi per risolvere i problemi. Occorre sottoporsi a una disciplina che affronti e risolva la questione. Per dire meglio: la U, essendo scura di natura, non deve essere oscurata ulteriormente, altrimenti provoca un abbassamento (incavernamento) eccessivo della laringe con perdita della brillantezza. Direi lo stesso per la O, quantunque debba essere emessa possibilmente con un piccolo calibro. La A si può oscurare (o arrotondare), ma sempre a patto che la si sappia emettere correttamente chiara, il che, per esperienza, è difficilissimo. La E ha già le sue due varianti chiara e scura, la I non ha una versione scura, ma si può emettere orizzontalmente (sorriso) o verticalmente, e salendo sugli acuti quest'ultima, pur dovendo sempre rimanere assolutamente "I", può avere un certo vantaggio.

sabato, luglio 01, 2017

Della "U"

La vocale "U" potrebbe definirsi ambigua, perché non son pochi a definirla la vocale dell'affondo, e quindi ad additare coloro che la utilizzano negli esercizi come "affondisti" (per quanto non dovrebbe mai esserci una vocale particolarmente prioritaria). Questa accusa, se accusa può essere, si basa su un pesante equivoco, e cioè che le vocali possano essere correttamente pronunciate internamente. La U utilizzata dalla cosiddetta tecnica dell'affondo, non è una reale U, non è quella che si utilizza normalmente, ma è un suono cupo che si forma premendo la laringe verso il basso. Dite a un bambino di dire U, e vedrete le sue labbra chiudersi fino a creare un forellino; lascerà uscire un filo d'aria sonora che formerà, esternamente, una vera U, così come normalmente succede mentre si parla, quindi è anteriore ed esterna, come lo sono, per amor di verità, anche tutte le altre. Le vocali fanno uso di suoni e i suoni, a seconda della vocale che si intende pronunciare, possono avere vari colori, quindi ciò che cambia internamente quando si parla o si canta, sono i colori dei suoni che alimentano le vocali; è un dato di fatto, una notizia, che possiamo conoscere per informazione. Alla base di questo, però, c'è anche un altro fatto che ci può tornare utile; pur esistendo un colore base per ciascuna vocale, è possibile modificarlo senza che questo debba per forza pregiudicare la qualità del suono. E' qualcosa che facciamo normalmente; quando ci arrabbiamo, quando vogliamo dire qualcosa con più energia, più autorità, oppure quando vogliamo parlare con dolcezza, o quando siamo sotto accusa, o altre mille situazioni, i colori del nostro parlato cambiano, così come può cambiare il carattere, seppur meno facilmente. In termini estremi, dunque, possiamo dire che ogni vocale può essere pronunciata chiara o scura (quindi, naturalmente, passando attraverso tutte le gradazioni intermedie). Non l'ha certo scoperto Garcia; esiste da quando esiste l'uomo; nel canto, tutt'al più, il fenomeno è stato osservato e documentato e forse più frequentemente utilizzato, per ragioni di gusto, ma nessuno mi potrà mai convincere che nel 700 o 600 o anche mille anni prima recitando o cantando non si facesse uso di svariati colori e caratteri. Venendo però al canto moderno (intendendo quello perlomeno degli ultimi due secoli) ci si è posto maggiormente il problema perché le tematiche operistiche hanno richiesto un più continuativo utilizzo di un carattere drammatico, che nell'immaginario comune si sposa meglio col colore oscuro. Da qui si è creato un gigantesco equivoco, e cioè che il canto lirico, tout cour, è scuro. Non solo non è vero, non c'è alcuna ragione perché sia vero, ma questo ha portato con sé il gravissimo problema delle scuole di canto che pensano di dover insegnare per forza il canto scuro. La cosa è anche possibile e non necessariamente negativa, bisogna vedere come e partendo da quali presupposti. Se, come scrivevo dianzi, partiamo dall'erronea ipotesi che le vocali sono interne al cavo orale, siamo già su una strada non solo sbagliata ma pure potenzialmente pericolosa, perché vuol dire schiacciare in basso, vuol dire impedire una fluida e costante espirazione, vuol dire impedire l'elasticità degli apparati e quindi una reale ampiezza orale. Il primo punto, il primo obiettivo, che già può richiedere anni per essere raggiunto, è la perfetta pronuncia delle vocali, libere, leggere, chiare e col giusto "calibro" (parole piccole, diceva Schipa e di conseguenza vocali piccole, che si possono ampliare a una certa distanza da noi). Quando si è in grado di pronunciare in modo inequivocabile, senza forzature e imposizioni (cioè senza "farle", ma riconoscendole), ecco che possiamo cominciare a giocare con i colori che però non dovranno perdere la loro posizione esterna, libera e leggera. L'evidente pericolo in agguato con l'uso di colori più scuri, è che la vocale "indietreggi", cioè che si pensi più al colore che alla vocale, perdendo la verità, la sincerità, la freschezza e l'efficacia comunicativa, il significato insito in quella vocale (e/o evidentemente nella parola che la contiene). Quindi tornando alla nostra U, dobbiamo prendere atto che anche per questa vocale ne esiste una versione chiara, che è quella che ci dovrà interessare maggiormente nei primi tempi, perché è quella più vera e facilmente pronunciabile in modo corretto (quindi esterna) e che quindi proprio nulla ha a che vedere con affondi e schiacciamenti, essendo la più vicina possibile al nostro parlato naturale. Alla pronuncia oscura ci si avvicinerà piano piano, sempre sotto osservazione, ma senza prendere una direzione prettamente strumentale, quella che porta poi a sentire cantanti che risultano caricature ridicole, orchi e streghe inascoltabili (da orecchie perlomeno di buon senso); basta assumere un carattere leggermente più drammatico, più riflessivo e posato, potremmo anche dire più maturo (in questo senso sappiamo che, anche solo per l'uso ordinario, la voce delle persone assume col tempo una timbratura leggermente più scura, salvo nell'estrema vecchiaia quando per diverse cause può invece schiarirsi anche notevolemente). Per concludere posso dire che la vocale di equilibrio, quando fatta con assoluta tranquillità, rilassatezza, è la A, che deve dare l'esempio della luminosità, della chiarezza cui andranno a ispirarsi anche la O e la U (nella A esemplifico con un bel cielo azzurro, che non deve annuvolarsi nelle vocali seguenti).

venerdì, giugno 16, 2017

Piazza Antonietti

Mi pare giusto e doveroso dedicare un post a quest'avvenimento che ha un valore particolare per noi che molto, se non tutto, dobbiamo a questo grande Maestro che ha speso la sua vita nel nome dell'Arte del Canto, le cui scoperte ci hanno illuminato la strada. Il 24 giugno a Sestri Levante (GE), ore 18, intitolazione ufficiale. Grazie M°, e ciao.

martedì, giugno 13, 2017

La parola leggera

E' giusto o verosimile quanto alcuni credono, e cioè che una accentuazione considerevole della pronuncia possa portare a uno schiacciamento in avanti della voce. Per questo ci sono insegnanti che, pur ritenendo valida la strada della parola, mettono in guardia dall'esagerare e rendere eccessivamente nitida la pronuncia. Però non hanno ragione, il loro punto di vista è parziale e l'analisi del fenomeno è superficiale e quindi errate le conclusioni. Occorre analizzare il fenomeno per chiarire dove sta l'errore. Ripartiamo sostanzialmente da capo; come dico da sempre, noi abbiamo un parlato che è da considerare perfetto se relativo al contesto per cui viene utilizzato, cioè la vita di relazione. Per la nostra vita è sufficiente; se necessita un parlato più preciso ed espressivo occorre uno studio; se occorre un parlato molto più importante, cioè oltreché espressivo anche molto sonoro e ricco di colori, caratteri, sfumature, occorre molto studio e già diventa una prerogativa più limitata. Quando si fa il passo successivo, cioè il canto, la barriera si alza ulteriormente, e di parecchio, specie se intendiamo un canto classico, operistico o concertistico. Questo perché nell'intonazione e soprattutto se in una condizione ambientale impegnativa, perdiamo completamente il rapporto con il parlato e ci mettiamo a urlare, cioè a spingere, pensando che quello sia il canto. Poi ci si mettono le scuole di canto (?) che divulgano l'idea che il canto non c'entri niente col parlato e si conquisti solo con vocalizzi ed esercizi muscolari,  quando addirittura non ne indichino un potenziale pericolo, allontanandosi vieppiù dalla comprensibilità del testo,. E' invece esattamente l'opposto. La parola è il segno distintivo dell'elevatezza conoscitiva dell'uomo, e mitigarla non fa altro che denunciare la pochezza, l'ignoranza e il modesto livello conoscitivo di chi divulga simili ipotesi. Però c'è un però! Come s'è detto, se io perdo il contatto con la "leggerezza" della parola e inizio a premerla e schiacciarla in avanti, ne distruggo o limito fortemente la carica vera e sincera che la collega con la coscienza. Dunque esiste la condizione per cui la parola si può intonare su tutta la gamma propria di un soggetto, si può intensificare, si può sviluppare in senso caratteriale, cromatico, dinamico, espressivo, ecc., il tutto nella LEGGEREZZA, cioè in totale assenza di spinta. Vi è una sola possibilità perché ciò sia fruibile, e cioè mantenere la stessa localizzazione del parlato consueto, cioè l'esterno. Qualunque e qualsivoglia ipotesi, metodologica, empirica, scientifica ecc., che porti la vocalità in una posizione interna, ucciderà istantaneamente questa possibilità e dunque la spinta diventerà necessaria per sopperire a quella mancanza di libertà, unica condizione affinché la voce parlata possa sprigionare tutta la sua potenzialità. Quindi, riassumendo: mantenere la parola nella sua posizione abituale, migliorare la pronuncia fino al suo massimo potere senza premere, senza gridare (quindi senza aumentare vistosamente l'intensità, altrimenti si sarà portati a spingere, quindi mantenersi su un piano/mezzoforte). Queste semplici istruzioni saranno già in grado di accrescere considerevolmente la qualità vocale e il suo spessore. Fare scioglilingua, pronunciare con attenzione e precisione parole complesse, accentare correttamente parole e frasi, pronunciare gli accenti giusti sulle E e sulle O, insomma rivolgersi a una corretta dizione, farà progredire non poco lo studio vocale.