Prima di affrontare l'argomento agilità mi soffermo su una questione terminologica, che può avere o meno importanza ai fini dello studio del canto, ma è comunque spesso al centro di discussioni, e non solo da oggi. Il termine è "belcanto", che anche noi usiamo come emblema della nostra scuola. Col termine "belcanto" e "belcantismo" si inquadra, in primo luogo, un periodo storico legato al melodramma, e compreso tra la nascita stessa del teatro musicale operistico - inizio 600 - e la fine del 700, con l'"appendice" rossiniana di inizio '800 e le propaggini, perlopiù riservate ai ruoli femminili, bellin-donizettiane e ancora alcuni ruoli verdiani. La caratteristica pregnante del belcanto è l'agilità, il virtuosismo (quindi il belcanto si lega strettamente alla corrente artistica definita Barocco e quindi Neo-barocco con Rossini), e il termine fu utilizzato solo verso la fine dell'800. Fin qui la questione è prettamente descrittiva e storicistica. Più direttamente può interessarci l'aspetto stilistico, che investe l'esecutore nel momento in cui deve affrontare ruoli di quei periodi. Allora occorre avere anche una preparazione culturale, conoscere libri specialistici che abbiano indagato le fonti sia di natura musicale, quindi partiture autografe e copie, sia di natura metodologica: trattati, manuali, ecc. Quella che si definisce filologia. E' un campo aperto, un po' in tutti i settori della musica colta, e dove la polemica e la discussione vivace e anche aspra regna sovrana da almeno 30 anni. Certo, perché dalle fonti scritte non è facile risalire alla realtà del tempo, e anche ben sapessimo con sicurezza come e cosa si faceva, non è poi detto che sia giusto ripetere in quel modo. Il tempo cambia tante cose (ricordo, per analogia, le polemiche roventi legate al restauro dei dipinti della Cappella Sistina e altri affreschi rinascimentali), compresi i sensi umani (non sono pochi i musicisti che rifiutano l'adozione di strumenti d'epoca in quanto - secondo loro, ad esempio Claudio Scimone - la capacità udiditiva dell'uomo sarebbe scesa del 30%. Molti poi sono contrari agli strumenti antichi in quanto "stonati" (lo affermò più volte Karajan)). Nel nostro campo i dubbi si fanno ancora più rilevanti, perché non abbiamo neanche i modelli dell'epoca, come avviene per gli strumenti, ci possiamo fidare solo di quanto scritto. Tutta la diàtriba su come emettevano gli acuti i cantanti nel primo Ottocento... falsetto, falsettone... i contralti che diventano soprani... insomma, diciamo pure che ci sono teorie e deduzioni, più o meno serie e verosimili, ma la verità non la sappiamo e non la sapremo mai. Amen. Il compito di chi insegna canto è prima di tutto quello di fare in modo che si canti BENE! E cantare bene significa cantare senza sforzo, con omogenità, con padronanza di espressione e dinamica su tutta la gamma, essere in grado di cantare con ottima pronuncia e intonazione un repertorio idoneo (quindi soggettivamente individuato), senza lasciarsi blandire da ruoli più popolari e soddisfacenti sul piano personale, ma pericolosi per la salute vocale, avendo l'umiltà e il buon senso di rimanere sempre nei propri limiti di colore, di tessitura, di peso. Il riferirsi a un determinato metodo, a un determinato periodo, è cosa più da mercato ortofrutticolo che da seria scuola di canto. Così come è illusorio lo sbandierare il metodo dell'affondo come quello che ti farà cantare come Mario del Monaco, è altrettanto vuoto di significato il riferirsi al "belcanto" inteso come il "metodo" di Tosi, di Mancini, di Garcia o di chi altro volete voi. E' chiaro che questi trattati esistono, e sono preziosi, perché ci illustrano con poche parole un approccio al canto senza epoca, come dev'essere per ogni Arte che tale si possa definire, con un avvicinamento semplice, chiaro, lineare. In fondo è tutto qui; ciò che è avvenuto dopo la metà dell'800, ma soprattutto nel secondo 900, è stato un regresso, perché, per colpa soprattutto degli studi medico-scientifici, si è reso tutto più complicato e ricercato, perdendo invece l'uso dell'empirismo intuitivo, dell'esperienza, delle constatazioni visive e uditive. Non finirò mai di dire che lo studio del canto si basa su pochi concetti di estrema semplicità, anche se i soliti buontemponi che non sanno leggere ritengono che io affermi il contrario. La semplicità non è la mollezza, non è il lasciar andare, l'abbandonare, il non controllare, ma esattamente il contrario; però adesso non ripeterò la solfa. Quando si insegna canto e ci si rifà agli antichi trattati, si può solo contare su una visione complessiva; non si tratta infatti di metodi particolareggiati, non dicono (fortunatamente) con cosa cominciare, come proseguire, ma soprattutto non ci dicono, e non ci possono dire, tutti i possibili errori che si possono riscontrare e come correggerli. Del resto se si legge attentamente il Mancini, ci sono alcuni precetti che oggi ci appaiono persino incomprensibili e sicuramente inapplicabili. Un insegnante che facesse portare il registro di petto di un soprano sino al re e persino al mi4, sarebbe immediatamente considerato uno squilibrato e additato come pericoloso! Quindi ergersi a paladini del belcanto o ritenersi veri e autentici cultori dell'antico canto all'italiana ritenendo, fariseisticamente, di possedere i principi di quelle scuole solo avendo letto i trattati dell'epoca, ma depurandoli e filtrandoli opportunisticamente, prende un abbaglio. Il belcanto è prima di tutto buon canto. Se si è appresa la disciplina del canto a risonanza libera, se si è elevata ad arte vocale la funzione respiratoria, ci si potrà ritravare in molti principi e affermazioni contenuti in quegli antichi libri, ma si potranno anche trovare concetti anacronistici, poco opportuni da applicare, di rilievo storico, stilistico ma esclusivamente culturale, informativo. Se guardiamo i trattati strumentali del '600, troviamo che chi suonava le tastiere non eseguiva, a quel tempo, il passaggio del pollice come lo conosciamo oggi, ma si facevano movimenti molto più complessi e rigidi. So che qualche clavicembalista occasionalmente usa ancora qualcuna di quelle diteggiature, ma sono da ritenersi del tutto inappropriate e non permetterebbero l'esecuzione di molta letteratura successiva. Credo che situazioni analoghe siano presenti in trattati di altri strumenti. Il canto non si può paragonare alle tecniche strumentali, però non v'è dubbio che molti aspetti legati al gusto e all'estetica possano variare nel tempo, e quindi non essere più riproducibili. I trattati fino a metà Ottocento prendono come base di studio il canto "figurato", cioè che individua come elemento espressivo l'agilità. Se assumiamo questo concetto, non si dovrebbe o potrebbe cantare nessuna opera successiva che pone invece la parola, il timbro, il colore, la dinamica, quale elemento espressivo, e questo come si può coniugare con l'antico canto all'italiana, se preso alla lettera? Non si può, e dunque il concetto di belcanto, se lo si vuole legare a un modo pratico di cantare, deve ampliarsi ed estendersi, altrimenti diventa pretestuoso.
Per "sottrazione", noi riteniamo che si possa definire belcanto quell'approccio alla vocalità che si discosti da tutte le complicazioni muscolari e meccaniciste. Fine.
Percepire errori è una capacità estremamente sofisticata che il cervello acquisisce tramite l'orecchio, ma che seleziona in base alle esperienze (ciò che qualcuno individua come errore per altri può essere un pregio, dipende dal livello di conoscenza specifico acquisito). Ci sono (non da sempre, ma dopo la "cura" Celletti, cioè dopo che un giornalista si era messo a parlar di canto come se lo conoscesse personalmente) stuoli di appassionati d'opera che al termine di una esecuzione vocale danno sfogo alla loro presunta competenza, con tutto il vocabolario cellettiano ormai consolidato, segnalando il cantante senza passaggio di registro, quello col suono indietro, col suono nasale e via dicendo. Certo, esistono alcuni difetti evidenti e che si possono riconoscere con facilità, ma altri invece sono molto ingannevoli, e realmente non si possono distinguere se non se ne ha la coscienza (persino nell'intonazione molte persone, anche musicisti, prendono abbagli). Se io so cos'è un suono ingolato è perché l'ho emesso e lo posso emettere quando voglio; l'ho vissuto in una evoluzione da incosciente emissione a riconosciuto errore. Ogni volta che insegno mi immedesimo in chi canta, e provo le sue stesse sensazioni, e in questo modo so perfettamente quando un suono è avanti, indietro, in alto, in basso... ma anche molto di più! Mi rendo perfettamente conto di quando un allievo prova paura, prova senso di vuoto, quando non è soddisfatto, quando sente fatica e dove. Questa è la coscienza e l'arte dell'insegnamento. Mi posso immedesimare in alcune affermazioni di Tosi, di Mancini, di Lamperti di Garcia e persino di Lazaro, ma anche della Battaglia Damiani, di Juvarra o di Menicucci. Certo, perché, come ho scritto più volte, chiunque abbia esperienza e sa emettere anche solo QUALCHE buon suono, proverà delle sensazioni che cercherà di comunicare e nelle quali è possibile riconoscersi. Però questa è la trappola letale! Se con percorsi virtuosi, anche diversi tra loro, tre persone raggiungono un determinato buon risultato, potranno riconoscersi, incontrarsi, in una determinata sensazione; se però io, che possiedo quel certo buon risultato, cerco di far provare quella stessa sensazione a un mio allievo senza la disciplina che, unica, può portarmi a quel risultato, farò un buco nell'acqua gigantesco. Questo vale, lo ripeto ormai da anni, per i tanti che vorrebbero mandare la voce "in maschera", alta, nella nuca, nella calotta cranica, dietro agli occhi, negli zigomi, ecc ecc., ma vale anche per coloro che "cercano" (questo è il termine da incriminare) la voce a risonanza libera, che è ovviamente il non plus ultra, ma è un obiettivo, un obiettivo a lunghissimo termine, perché prima c'è la disciplina. Quando vediamo un grande pianista, come poteva essere B. Michelangeli o Rubinstein, che suona, noi vediamo una persona con una tranquillità e una immobilità (non rigidezza, si badi bene) strabilianti! Mani che sfiorano i tasti, dita che quasi non sembrano articolarsi, talmente fluidamente scorrono sui tasti per tutta l'estensione. Ma... forse si pensa che non abbiano dovuto passare giornate a disciplinare le loro mani, dita, braccia e corpo intero? E per cosa? le dita non sono "naturalmente" destinate a suonare? No, e la voce non è naturalmente destinata a cantare? No. Non c'è e non ci sarà mai un antropologo o uno scienziato serio che potrà affermarlo, mentre vedo seri studiosi che provano proprio il contrario: la laringe non è nata per cantare. Non lo affermo io, cercatelo su internet e troverete molti articoli di personaggi che con me e la mia scuola non hanno niente a che vedere. Tutti pazzi e ignoranti? Ma si legga, si studi, e si cerchino i perché e i percome. Non basta dire: non è così, e nemmeno "dimostramelo"; visto che c'è un'affermazione, piuttosto suffragata da studi, si provi a immaginare le conseguenze, o si cerchi di dimostrare il contrario, altrimenti si tratta di negare un dogma con un altro dogma, e non si va da nessuna parte.
Nessun commento:
Posta un commento