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martedì, maggio 07, 2013

Aprire o non aprire?

Dunque, un capitolo alquanto spinoso nell'educazione vocale riguarda il cosiddetto suono "aperto". Realmente penso che fino a qualche anno fa, o decennio al massimo, questo problema non si ponesse, ma sia sorto da quanto si è cominciato a oscurare indebitamente il suono e da quando si è andata diffondendo una confusione estrema sulle modalità più corrette per elevare artisticamente la voce al canto. Naturalmente esistono dei presupposti, diciamo così, storici della questione. Alcuni cantanti, e segnatamente uno, Giuseppe Di Stefano, dopo un radioso inizio di carriera è andato incontro a un vistoso declino. Egli faceva un uso spavaldo (come nella sua natura) del cosiddetto suono aperto, pertanto è comune opinione che questo tipo di suono sia da evitare come la peste! Peraltro anche alcuni altri cantanti hanno intrapreso strade analoghe e anche ad essi non è andata benissimo (Valletti, Tagliavini), per lo meno sulla lunga distanza. In qualche altro caso invece il successo avrebbe dimostrato il contrario (Gigli, Schipa). Come stanno dunque le cose? Cos'è un suono aperto, e cos'è un suono chiuso? Premetto che l'argomento è estramente difficoltoso da descrivere, mentre facilissimo da esemplificare (ma, nuovamente, difficilissimo da raggiungere).
Intanto dobbiamo dire che, come in molti altri casi, si fa confusione con altri argomenti, che c'entrano fino a un certo punto. Qui il punto dolente sta nel cosiddetto passaggio da petto a falsetto, cioè è comune convinzione che il suono aperto sia sempre e comunque emesso in registro di petto. Le cose stanno diversamente, e cerco di dare la visione più ampia e approfondita di cui sono capace.
Partiamo da un dato di fatto: il normale parlato quotidiano si esplica mediante una sonorità che possiamo definire "aperta". Questo perché i nostri apparati sono già allineati e predisposti a un suono che si può definire "avanti", "presente", ma anche facile, scorrevole. In questa scuola diamo per scontato che questa deve essere la strada su cui educare tutta la voce. Uscendo dalla ristretta gamma dei suoni tipici del suono parlato, le condizioni respiratorie non permettono più di mantenere facilmente quella stessa facilità di emissione, e il suono perde precisione di pronuncia, brillantezza, chiarezza e altre qualità (legate al momento educativo dell'allievo). Questa perdita di caratteristiche si evidenzia in particolare nella zona più acuta del petto e in modo eclatante quando le si vogliono mantenere anche nel registro di falsetto. Il tentativo esacerbato di mantenere la pronuncia nel registro acuto, porterà facilmente a una "caduta" nel "sottostante" r. di petto. Questo, che possiamo definire un errore, ha una causa ben precisa, cioè la mancanza, più o meno grave a seconda dei casi, di una alimentazione respiratoria adeguata. In sostanza, se io, in falsetto, provo a "parlare", cioè a pronunciare con determinazione, farò molta fatica o non ci riuscirò affatto perché non ho alle spalle una condizione respiratoria che me lo consenta. Se, invece, provo a fare dei "suoni" anonimi, più o meno simili alle vocali (e di qui la orribile prassi dei suoni "intervocalici", una sorta di "inciucio" artistico, usando la terminologia in voga in campo politico), troverò minori difficoltà, perché questi suoni sono più DIFETTOSI, cioè il difetto sta nel fatto che richiedono un minor apporto di fiato (di qualità, per la precisione). Da qui nasce la pratica della quasi totalità delle scuole di fare per molto tempo solo vocalizzi e adeguare, in seguito, il canto a quelli; essendo quelle vocali difettose, è ovvio che anche il canto e la pronuncia risulteranno più o meno gravemente distorte e innaturali, e da qui emerge un canto oscurato e incomprensibile. Se qualcuno vi dice che la A o la I o qualunque altra vocale "non esiste", o "non si fa", vi ha già dato la cifra del suo metodo, cioè ci allineiamo al basso; troviamo un suono che sia sostenibile anche da chi è agli inizi dello studio, sopportabile, e cantiamo su quella base. E' ovvio che una mentalità artistica non possa accettare un simile punto di vista, però per qualcuno può anche essere una soluzione...
Allora la strada giusta (che ben comprese e delineò Tito Schipa nei pochissimi scritti o detti lasciati in merito) è quella di educare il parlato in primo luogo lungo tutta la gamma di petto tipica della popria classe, con saltuarie esplorazioni un po' fuori campo (per un tenore e una donna ad es. fa#3, sol3, per un baritono, mib3, mi3, ecc.), quindi iniziare (per le donne praticamente subito) a pronunciare anche in falsetto, iniziando senza problemi dal falsetto leggero, senza intensità, attendendo con pazienza che il fiato si "faccia" e sostenga convenientemente, cioè che possa reggere anche una voce più piena e sonora. Molti tenori, ma anche le donne, spesso si vergognano di utilizzare il falsetto leggero, e questo è sbagliato, non devono porsi questi limiti, e superare questi pregiudizi. Devo però ancora aggiungere diverse cose.

Se faccio pronunciare una "A", che è vocale aperta per natura, spesso la si sguaia, scaturendone un suono orribile. Da qui la volontà di molti insegnanti di lasciarla perdere e considerarla "pericolosa". Strano che per gli antichi fosse una delle preferite! I motivi per cui la A non viene bene sono di varia natura, principalmente: 1) fiato decisamente inadeguato (principianti); 2) orizzontalizzazione della bocca; 3) pronuncia interna, cioè muscolare, faringea, velare (anche inconsapevole). Un sospiro di sollievo (da provare e riprovare) conduce alla posizione più idonea: apertura rilassata della bocca, tendenzialmente verticale, fiato-suono che esce e quindi pronuncia esterna. L'inadeguatezza del fiato si recupera con un ciclo di lezioni ben fatte.
A questo punto, se da una "A" vogliamo passare a una "O", cosa capita? capita che tutti quanti chiudono la gola, dove andranno a cercare la pronuncia. Questo determina un suono, oltre che difettoso, oscuro, buio, chiuso. Soprattutto sottolineo il "chiuso" per dire che dalla ariosità e libertà che (almeno in teoria) ci comunica la A, avvertiamo resistenza, chiusura, difficoltà, opacità. Allora ecco che nasce un problema a volte gigantesco per chi sta imparando, cioè mantenere la luminosità, la ampiezza e chiarezza della A nella O. Come? Molti insegnanti che non perseguono la strada del suono scuro a tutti i costi, di fronte al problema dicono: "fai la O pensando A". Altri dicono più semplicemente: "tieni la gola aperta". Consigli di cui comprendiamo lo spirito ma che non possiamo condividere. Ancora una volta il problema nasce dalle errate percezioni, o anche dal volere a tutti i costi fare (e percepire) il suono mediante il fisico, quindi muscolarmente. Capita quindi un fatto strano, che, dopo molti esercizi, quando finalmente si raggiunge il giusto, l'allievo dica: "ma a me non pare di dire O". Perché? Perché la "O", in realtà, c'è, ma è... "lontana", cioè è nell'ambiente e a livello di percezione fisica immediata credono di fare "A". Quindi occorre ribadire sempre di accentuare l'ascolto esterno, anche mettendo qualche rara volta le mani aperte ai lati della bocca, in modo da rompere il rapporto diretto tra bocca e orecchio. Dunque, non si tratta affatto di dire "O" pensando "A", ma di fare una "O chiara" e leggera (che è, detto tra di noi, quella che si dice normalmente parlando, e a cui si farà riferimento negli esercizi). Inizialmente, come si diceva, questa O potrà risultare effettivamente molto aperta e larga, ma nell'arco di pochi minuti, se non ci sono disastrose condizioni di fiato, si comincerà a prendere confidenza con una vocale la cui pronuncia finalmente ci apparirà dove deve apparire, cioè "proiettata" nell'ambiente, e non strangolata con i muscoli. Giocando sul "sospiro", sulla luminosità e ampiezza sonora, si potranno poi affontare adeguatamente tutte le vocali che risulteranno così identicamente sonore e intense, senza alcuna "omogeneizzazione", che sarebbe pratica da vietare con trattati internazionali!!! Allora, se e quando tale emissione è assicurata, noi potremo tranquillamente salire oltre i limiti del "passaggio" di registro senza alcuna necessità di modifica, che sia A, O, U, I od E, con qualsivoglia accento o colore.

Devo però fare ancora una precisazione importante, riguardante l'oscuramento. Come è noto l'oscuramento del suono viene comunemente utilizzato per risolvere il problema del passaggio di registro. Qui torniamo sullo stesso problema. Se utilizziamo una O, ad esempio, non aperta, cioè scurita e sostanzialmente difettosa, in primo luogo si rischia di non capire la giusta classe di appartenenza di una voce, in secondo luogo, se faccio ulteriormente oscurare nel punto in cui si decide di eseguire il passaggio, il suono sicuramente andrà a formarsi in zona faringea-palatale, cioè indietro, molto indietro. In pratica è necessario che se si vuole utilizzare l'oscuramento, occorre in primo luogo avere ben determinato il giusto suono di base (quindi aperto di petto), dopodiché approcciarsi allo stesso suono con un colore leggermente più oscuro MANTENENDO LA STESSA POSIZIONE, quella del suono aperto, senza investire in alcun modo la muscolatura interna (se si lascia completamente ogni forza e si entra in un falsetto leggero, si avrà una chiara percezione della posizione del suono). Non è assicurato che il suono risultante sia giusto, e non è nemmeno detto che si ponga nel registro superiore; un certo irrigidimento potrebbe creare condizioni di mantenimento della corda grossa. Non è un problema particolare, l'allievo dovrà trovare piano piano l'equilibrio per far sì che il suono passi senza portarlo indietro. Questa pratica, che non è sempre necessaria, ma piuttosto utile e importante e quindi da utilizzare in qualche fase dello studio, è, manco a dirlo, sempre indirizzata a favorire un'educazione respiratoria adeguata al tipo di suono che si vuole ottenere, nel nostro caso: perfetto! Accontentarsi può anche essere una scelta, però ritengo sia più saggio accontentarsi di fare suoni piccoli ma belli, chiari, simpatici, liberi, piacevoli che duri, legnosi, stonati, violenti, forzati. O no? Beh, a ognuno il proprio.

8 commenti:

  1. Grazie.
    Ho letto più volte il post e mi sono fatto una domanda: ma noi già pronunciamo mentalmente quando leggiamo... quindi la "pronuncia mentale" è propedeutica a quella verbale, che uscirà fuori pensata... Bisogna quindi imparare a leggere ed anche udire bene prima mentalmente? Credo di non essere stato molto chiaro....

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  2. Ma l'aperto di cui qui si parla, in buona sostanza, è il color chiaro? Perché esiste anche un aperto deleterio, nel senso di "largo", sguaiato, e quello credo sia estraneo al discorso, se è vero che il calibro della voce deve sempre essere "stretto"... o come diceva Schipa, parole "piccole"... Quindi qui si intende aperto nel senso di "non coperto", cioè chiaro, dico bene?

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  3. #Salvo: la pronuncia mentale secondo alcuni è un affaticamento inutile, occorrerebbe eliminarla. Ci provai anni fa senza risultato! In ogni modo bisogna considerare che ciò che noi pensiamo mentalmente riferito a cose pratiche, sono sostanzialmente errate, noi siamo illusi che una certa cosa provata mentalmente possa tradursi nella pratica, ma nei fatti questo procedimento tende a fallire.

    #Francesco: la domanda mi colpisce perché temo di non essere stato per niente esauriente, contrariamente a quanto mi ero prefissato. No, non posso rispondere che aperto e chiaro sono la stessa cosa, anche se in una certa fase queste due cose si avvicinano, e per indurre a migliorare posso suggerire di schiarire. Il giusto suono aperto ha in sé il giusto equilibrio di chiaro e scuro, è, in sostanza "la propria voce", o voce vera. La vocale sguaiata è una vocale con una errata conformazione - o forma - e/o con insufficiente alimentazione respiratoria. La vocale piccola è uno dei precetti che ritengo basilari nell'educazione vocale, ma occorre anche (come sempre) intuire dove questa pronuncia piccola andrà focalizzata; se io faccio una pronuncia piccola dietro le labbra, avrò una rigida e ostacolante chiusura della glottide, oltre a una tensione di tutta la muscolatura del collo. Dobbiamo quindi prima aver chiara la fluidità, la leggerezza del suono esterno (che è in genere più semplice nella A), dopodiché ci sarà il problema di pronunciare la O senza chiudere, che potrei definire una O sì piccola, ma anche "lontana". Nel suono aperto si può anche scurire; il suono cosiddetto coperto è un suono sì più scuro ma anche più "raccolto", che quindi perde un po' di proiezione, si forma immediatamente fuori dalle labbra, è piccolo ma piuttosto sonoro, bello, piuttosto facile in quanto lo scuro ne privilegia l'appoggio.

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  4. Salvo3:42 PM

    Aperto, chiuso, su e giù,dentro e fuori, vicino e lontano, ecc sono le eterne diatribe del canto. Penso anche io, come Fabio,e più volte l'ho ribadito perchè ho fatto l'esperienza sulla mia pelle (o meglio sulla mia voce), che il suono giusto è la propria voce, non ci sono altre voci o suoni, o almeno bisognerebbe raggiungere l'effetto del "non suono", della "non voce"... cioè di un'energia che proprio in quanto tale non ha attriti, freni, smorzamenti,sforzamenti, ma è fluida, direi "spaziale" cioè che riempie lo spazio, "avvolgente", e questo avviene sicuramente se si attua un suono che non abbia paura di essere piccolo (l'atomo è un esempio con la sua energia).

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  5. Anonimo4:31 AM

    Mi incuriosisce un aspetto: che cosa intendete per "suoni intervocalici"?
    Normalmente in fonetica è il suono che sta tra due vocali (es. la "c" e la "l" nella parola "vocali").

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  6. #anonimo: sì, molti insegnanti di canto fanno uso privilegiato non di vocali pure (addirittura parecchi asseriscono che "non si usano"!) ma intervocaliche, cioè "tra" due vocali, sostanzialmente oscurandole (la oe per la E, la ou per la O, la UI per la I, la oa per la A, ecc.).
    #Salvo: hai ragione, ma non sai quanto tempo sia necessario, e quanta pazienza per far accettare la "propria voce" dagli allievi.

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    1. Anonimo12:12 AM

      Sono "anonimo" del messaggio precedente.
      Mi interessa questo discorso delle vocali. Quali consideri "pure"?
      Me lo chiedo perché le cavità di risonanza hanno una variabilità continua, non a scalini.
      Insomma, potenzialmente le vocali sono infinite e l'identificazione non può prescindere dalla lingua: in Italiano ne abbiamo solo sette, in Inglese ce n'è almeno il doppio e quelle che dal punto di vista italiano possono parere "vie di mezzo" in Inglese possono essere vocali di pari dignità.

      Valerio

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  7. In linea di principio hai perfettamente ragione; come in un arcobaleno, noi identifichiamo alcuni colori ma sappiamo che le sfumature sono infinite, anche nella voce abbiamo alcune vocali e altre sono gradazioni intermedie. Sappiamo però che alcuni colori sono "primari" ed altri secondari. Non è solo una questione di lingua, ma alcune vocali hanno in sé una purezza, cioè una determinazione di colore e "allineamento" di forme che non appartengono indiscriminatamente a tutte le possibili vocali. Posto che tra gli obiettivi del canto esemplare c'è naturalmente anche l'emissione perfetta di qualsivoglia sfumatura vocale, ritengo fondatamente che l'educazione artistica di alto livello debba realizzarsi in primo luogo con le vocali "pure", cioè A E I O U; in secondo momento si impareranno a dire anche le altre, che vengono definite intervocali. Se non è abbastanza soddisfacente la risposta, dedicherò un post a questo argomento. Grazie.

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