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martedì, dicembre 04, 2018

Quelli che "se la cavano"

Una domanda può sorgere spontanea quando si leggono tante informazioni su questo blog che espongono in modo abbastanza evidente che scuole di canto non ce ne sono quasi più e la maggior parte degli insegnanti navigano in situazioni che vanno dal "sentito dire" al "si è sempre fatto così" (non è vero) all'esperienza personale senza fondamenti ecc. ecc., e cioè: come mai, alla fin fine, di cantanti ce ne sono tanti che comunque eseguono in ogni parte del mondo opere anche di notevole difficoltà? Ci sono diverse risposte, ma che attengono sostanzialmente a una importante e unica fattispecie: chi canta se la cava! Ci sono persone che per doti naturali innate, per prestanza fisica e soprattutto respiratoria, hanno voce forte, robusta, resistente e di ampia estensione fin da giovanissime. La fortuna, per queste persone, è di trovare un insegnante che non li rovini, il che è difficile tanto quanto trovare un buon maestro. Ma a questo può sopperire l'intelligenza. Se hanno perspicacia, prontezza, sapranno scappare da quegli insegnanti che li condurrebbero a pronta fine. Poi, invece, ci sono insegnanti che pur non avendo una reale padronanza della materia, pure loro se la cavano, con un po' d'istinto, di orecchio e non badando troppo alle tante sciocchezze che circolano, e magari anche con un po' di umiltà che li ferma quando si rendono conto che non sono sulla strada giusta, riescono a tirar fuori un po' di buoni allievi, sempre partendo comunque da persone dotate vocalmente e sveglie. Infine ci sono alcuni, pochi, che se la cavano davvero da soli. Direi soprattutto in campo femminile. La mia constatazione, non solo recente, è che oggigiorno le donne che cantano, soprani o mezzi, sono messe molto peggio degli uomini. Questo però non sembrerebbe, considerando che il repertorio operistico negli ultimi decenni si è parecchio spostato dalle opere dove i protagonisti erano maschi, soprattutto tenori (ma con una buona rivincita dei baritoni) a quelle con protagoniste donne, e questo anche per una predilezione verso il belcantismo che si è imposta. Il fatto è che le donne sono sempre mediamente più preparate degli uomini, ma soprattutto perchè... se la cavano molto di più. Hanno più resistenza, ma soprattutto la loro corda acuta è più facilmente piegabile all'emissione anche forzata, cosa che agli uomini non riesce altrettanto bene, se forzano steccano o emettono suoni inascoltabili. Oggi la maggior parte delle cantanti non pronuncia accettabilmente, i suoni sono perennemente indietro, quando non intubati, ingolati, ingolfati, nasaleggianti, ballanti, stonati. A questo seguono problemi di personalità, di musicalità, di identificazione nei personaggi e nelle situazioni. Fredde o scioccamente esagerate. Eppure godono di autentici fanatismi tra gli spettatori. Cantanti che mi farebbero uscire a metà della prima aria, sono più che tollerate, amate! Va bene, in alcuni casi si tratta di belle o bellissime donne, e questo, seppur poco c'entri, può essere comprensibile, ma non è sempre così. Dunque il declino uditivo è palese. Oggi nessuno bada se non si capisce più niente di quanto una cantante dovrebbe dire, e manco si bada che quanto (non) viene detto rappresenta la partecipazione viva e sincera del cantante a quel ruolo. Un acuto forte o una mezzavoce, anche se indietro, strozzata, fanno saltare sulle sedie. Una bella voce fa strappare i capelli. Eppure non è niente, è solo la materia prima; come se si gridasse al miracolo nel vedere un bel pezzo di marmo; lo scultore ancora non ci ha messo le mani sopra, o ha giusto arrotondato un po' gli spigoli... Certo ci sono cantanti con una tale indole musicale, che non si può rimanere insensibili, o con un orecchio all'intonazione ammirevole. Tutte doti che non passano inosservate, ma che non sono e non si possono confondere con l'arte. Purtroppo ne hanno preso il posto, al punto che ci si è fatta l'idea che senza doti innate non si canta. E grosso modo è così, o forse è proprio così e basta. Il problema è che non hanno molte chances di durare a lungo, il che li porta in tempi abbastanza rapidi a lasciare la carriera e...?! Naturalmente insegnare! Cosa? niente, perché non avendo una grande scuola alle spalle, non sanno esattamente come risolvere i problemi, per cui vanno a "naso" e di solito fanno danni, ma siccome hanno avuto molta visibilità, si pensa che invece siano insegnanti ideali. Termina una poesia del m° Antonietti: "... poi a tua volta, tu ti ritrovi un lavatore, d'una catena con tanti anelli, fatale macchina lavacervelli".

martedì, novembre 06, 2018

The wall

Questo post credo possa risultare molto utile soprattutto a chi è in una fase "intermedia", e riguarda in particolare l'emissione degli acuti. La voce deve nascere esternamente e fluire, viaggiare nell'ambiente in scioltezza, libertà, scorrevolezza. Proprio la leggerezza del suono, anche il più intenso, forte, porta lo stesso a "volare", "levitare", cioè portarsi verso l'alto, come fosse più leggero dell'aria stessa, quindi come un palloncino pieno d'elio, o veleggiare come un aliante. Questo risulta o può risultare non difficilissimo nella zona centrale della gamma. I problemi si presentano quando ci si avventura nella zona  acuta. Qui l'istinto di tutti, pochi esclusi, è quello di cominciare a premere. Allora. benché io sia contrario alle immagini, posso dare questo consiglio: pensate di avere davanti a voi, a una certa distanza (non così vicino come nell'immagine sottostante) un muro, che il canto dovrà superare. Questo superamento deve avvenire con la leggerezza, come se il fiato-voce scorresse come fosse acqua che risale, come quella di un placido fiume sugli argini. Premendo si tenta di sfondare il muro, di abbatterlo. Il muro invece deve essere elegantemente superato, come un danzatore si èleva su un palco. Quando si riesce a ottenere questo risultato, si percepisce nettamente la "non spinta", cioè che si sta al di qua del muro, e si ha anche la netta sensazione che dando poco di più si sfonda il muro, cioè si passa a quella manifestazione di grido che oltre ad essere errata, è decisamente sgradevole. Quando si studia un'aria, bisogna arrivare a questo risultato con una certa attenzione; è possibile che quando si affronta per la prima volta un brano si sia portati a spingere, anche quando si ha una buona esperienza. Purtroppo l'istinto non va mai sottovalutato, è sempre in agguato.

venerdì, settembre 14, 2018

Il canto delle stelle

La luce ci è data dalle stelle. Le stelle sono astri composti dall'elemento più semplice esistente, l'idrogeno, che nella fusione diventa l'elemento immediatamente successivo nella scala, l'elio. La fusione produce immenso calore e quindi luce. Le più grandi fonti di energia, quindi, provengono dagli stati più elementari e leggeri della materia esistenti, e la reazione libera una piccola parte di materia trasformandosi appunto in una quantità immensa di energia termica e luminosa. Questa osservazione dovrebbe, ancora una volta, insegnarci che per ottenere straordinari risultati bisogna partire dal piccolo, dal semplice, dall'elementare, e liberare materia. Nel canto noi abbiamo questa possibilità, basta riflettere. Noi abbiamo aria nei polmoni che può uscire liberamente, oppure può generare suono vincendo la resistenza delle c.v. L'aria è un elemento con una certa complessità, ma in ogni modo, rispetto alla materia di cui è composto il corpo, è estremamente leggera e semplice. Le corde vocali, nel momento in cui vengono poste in vibrazione dal fiato, possono essere interpretate in due modi: un ostacolo, che viene "vinto", superato, oppure un mezzo di qualificazione. La nostra mente fisica lo interpreta generalmente nel primo modo, salvo si tratti di voce parlata, in quanto l'uomo possiede la parola come attributo fondamentale insopprimibile, quindi presente nei geni. Quando il fiato va a generare suoni vocali diversi dal parlato, viene inteso come ostacolato, e questo genera diverse possibilità di conseguenze. Le abbiamo già analizzate diverse volte e al momento non starò a ripeterle per non allungare troppo il post. Comunque vorrei già solo da queste poche righe far presente che esiste in partenza una bella differenza tra il considerare il canto una qualificazione o un ostacolo! Si potrà dire: "ma chi è che considera il canto un ostacolo? E' chiaro che si canta per dare un apporto espressivo migliorativo della condizione spirituale". Questo è vero, ma rappresenta solo l'aspetto verbale, superficiale. La realtà è che oggigiorno ogni volta che si affronta lo studio del canto, si pone il fiato in una condizione conflittuale in primo luogo con le c.v. e poi con tutto ciò che segue. Quindi, invece di liberare la materia dai lacci, dalle tensioni cui è sottoposta (anche dallo stesso fiato), generalmente viene aggravata da ulteriori pesi e pressioni, che non potranno mai generare qualità. Si potrebbe ancora dire che la qualità può essere intesa soggettivamente, per cui una voce anche ingolata, nasale, dura e oscillante per qualcuno può essere una voce di qualità, perché di bel timbro, molto forte, comunicativa. Certamente a livello soggettivo tutto è opinabile, ma l'arte ha delle caratteristiche oggettive che non sono discutibili. L'omogeneità, l'ampiezza delle possibilità dinamiche, coloristiche, la capacità di espandersi nell'ambiente senza sforzo, la (almeno apparente) facilità di emissione, l'ampia gamma espressiva e la corretta estensione sono i dati essenziali e indiscutibili per poter parlare di qualità vocale, a cui poi dovranno aggiungersi gli aspetti musicali ed eventualmente scenici se si vuol parlare di arte del canto. Allora il respiro che uscendo genera qualità per prima cosa non dovrà trovarsi in una condizione contrastante e oppositrice con quanto incontra, ovvero dovrà uscire pressoché con la stessa libertà e facilità del normale fiato espiratorio. Con la differenza che mutando di stato, da semplice aria a aria sonora, ecco che libera materia e può produrre una grande energia, sonora. La differenza è evidente: forza, spinta, contrapposizione, opposizione, generano rumori fisici, quindi un tipo di voce prettamente greve, non modulabile, o molto limitatamente modulabile dinamicamente e coloristicamente, espressivamente, udibile a distanza solo se molto potente alla base, cioè grazie a doti innate. La voce che esce dolcemente, cioè non fa vibrare le corde di forza ma grazie a un ideale obiettivo artistico, quindi in collaborazione, può generare tutta una gamma di sonorità di straordinaria bellezza, ricchezza, che non potremo non riconoscere VERE perché ci richiamano a quell'anelito di libertà che è il supremo obiettivo del nostro spirito, che vuole liberarsi dal fardello di un corpo ingombrante.

martedì, agosto 07, 2018

Il metodo no!

Già il m° Antonietti scriveva ormai qualche decennio fa che non si tratta di trovare un "metodo", ed è assolutamente vero. Cos'è un "metodo"? E' un sistema, un piano organizzato secondo le idee di un qualche insegnante o trattatista per allenarsi e superare determinate difficoltà. Di per sé è una buona idea; qualcuno, con esperienza, vuole spianare la strada a chi viene dopo facendogli evitare determinati errori e istradandolo verso ciò che è più corretto e meno "pericoloso" per la salute vocale (nel caso del canto). Tutto ciò sarebbe più che condivisibile, se non fosse che: 1) bisogna sempre chiarire da quali basi si parte; 2) bisogna capire a che tipo di esperienza e di risultati fa capo chi scrive o adotta quel certo metodo. In effetti i metodi si basano sul "come", cioè che tipo di esercizi fare. Quando ero molto piccolo, dei parenti mi regalarono degli spartiti. Un mio lontano cugino aveva studiato un po' canto, e mi diede alcuni spartiti e anche un metodo "autodidatta" di canto, più libri per pianoforte. Purtroppo morì prematuramente e non arrivò a sentirmi neanche iniziare lo studio del canto. In ogni modo io un giorno per curiosità aprii questo metodo e vidi che c'erano scalette con le note. Io cantai le note... e poi? boh! tutto qui, mi chiesi? Eh già, senza un maestro che significato può avere fare delle note? Oltre l'intonazione, ma le mille cose da controllare per far sì che la voce "decolli", chi te le può insegnare senza controllarti e correggerti? In sostanza, non è il cosa, ma il COME! Cioè scrivere o adottare un metodo che ti insegna a fare determinati esercizi, come scalette, arpeggi, ecc. non serve a un bel niente, se non c'è un COME farle. Ed ecco che la strada più corretta è quella della massima semplicità. Fare una nota, due note, con un monosillabo o una parola, poi due parole, ecc. Ma anche questo non è e non è da considerare un metodo, perché i metodi possono andare tutti bene, se c'è chi ti sa correggere e indirizzare verso il VERO. Più che mai i libri metodologici, quelli che spiegano cosa c'è "da fare", tipo pensare la voce in alto o in basso, o dietro, tirare qua, alzare là, ecc. ecc. non solo contengono cose inutili, ma cose dannose. I metodi, o i libri sul canto in genere, sono, alla fine, manifestazione di egocentrismo (il metodo "di"). Segui il "mio" metodo e vedrai dove arrivi (l'importante è che lo compri!! poi se non lo capisci sono affari tuoi). La grande scuola di canto può orientare al giusto, ma senza entrare operativamente nelle spiegazioni, perché quella fase è da riservare alla lezione. Il maestro vero non trova le "gabole", i trucchetti, le tecniche e le favole che ti fanno guadagnare una certa voce, ma ti fanno capire perché la voce artistica è una conquista molto difficile e ti spiegano per filo e per segno il perché! E quindi ti fa capire perché ci vogliono quegli esercizi fatti in quel modo, e cerca anche di far sì che tu ti possa correggere, vale a dire che tu RICONOSCA il giusto e l'errato e, col dovuto tempo, ti possa correggere e quindi tu possa davvero diventare a tua volta maestro, prima di tutto di te stesso, cioè non è invidioso e geloso dei propri allievi. Poi, per quanto sia bravo il maestro, la conquista è da mettere in relazione tra i due soggetti, maestro e allievo. Michelangelo se scolpiva bene era un genio, se sceglieva male il marmo era colpa sua, ma poteva sempre buttarlo via e rifarlo; un insegnante di canto non può scegliere il materiale da elevare ad arte; può solo indirizzarlo, guidarlo e dargli tutti gli esempi possibili. Se anche è la sublimazione dell'arte dell'insegnamento del canto, potrà fare molto, ma non tutto. Ed è anche giusto così. Il metodo non può esistere, pertanto, anche perché ciò che c'è da fare va deciso in base al soggetto da educare.

domenica, luglio 22, 2018

La deriva dell'universo

E' assodato che dai tempi del (presunto) Big Bang, l'universo tende ad espandersi. Ciò che nessuno al momento è in grado di prevedere, è se questa deriva di galassie e corpi celesti continuerà all'infinito o se a un certo punto si invertirà la marcia e l'universo tornerà a contrarsi per ricominciare un ciclo. Da un punto di vista gnoseologico, ritengo che la seconda ipotesi sia quella giusta, ma tutto sommato poco importa, considerando che i tempi non ci consentono verifiche. Ma perché ho fatto questa riflessione? Perché "così in cielo, così in terra", ho colto un'analogia con le attività umane. Se noi partiamo dagli albori della Storia e veniamo almeno fino al Rinascimento, possiamo vedere che le attività di tipo artistico erano molto concentrate, e chi si occupava principalmente di una di esse, possedeva comunque perlomeno una cultura molto ampia nelle altre. Scultori-poeti, pittori filosofi, scienziati architetti... si capiva che tra le arti c'erano forti collegamenti e venivano esplorati e percorsi. Io poi dico arti, ma il concetto era molto più ampio; la scienza non era solo osservazione, ma intuizione, la magia non era (solo) un'attività da ciarlatani o da spettacoli di piazza. E in tutto questo anche le religioni, vale a dire gli aspetti della filosofia, della morale, ecc., c'entravano eccome. Nei tempi più remoti, chi sapeva illustrare abilmente con graffiti una parete, era considerato non un semplice "pittore", ma un vero mago, sacerdote, guida di una comunità. Cioè una figura mediatrice tra l'inconscio, la spiritualità, il divino e la vita fisica terrestre. E in tutte le cose si coglievano e si cercavano i nessi tra i due mondi, la caccia, la pesca e le coltivazioni, cioè l'alimentazione, la fertilità e la salute, cioè la sopravvivenza della specie. Nei tempi successivi, è iniziata anche in questo mondo una sorta di deriva; arti, scienze, mondo dell'occulto e attività umane si sono allontanate tra loro, e questa sequenza prosegue in modo sempre più evidente. Non solo le arti si sono allontanate tra di loro, per cui difficilmente un pittore sarà poeta o architetto, un musicista architetto, uno scienziato scultore, ovvero buona parte di queste cose insieme, ma vengono a mancare i collegamenti con le attività umane. Pensare, come succedeva ancora nel 700, che una stagione siccitosa poteva avere delle motivazioni di tipo metafisico, per cui si organizzavano imponenti processioni, si esponevano reliquie, si radunavano folle preganti, oggi è considerato ridicolo, frutto di superstizioni infantili. Può benissimo darsi, e non intendo affermare il contrario; ciò che però manca, è il collegamento tra le due componenti, cioè cercare di cogliere intuizioni e aspetti metafisici che possono spiegare e risolvere situazioni che l'osservazione e lo studio scientifico non hanno ancora potuto raggiungere, come succedeva anticamente. Noi oggi non possiamo che meravigliarci e renderci stupefatti che centinaia e persino migliaia di anni fa delle popolazioni avessero raggiunto la capacità di conoscere determinate soluzioni o dati cui siamo arrivati, razionalmente, solo da pochi anni o decenni. In compenso, stiamo perdendo pezzi! Molte branche del sapere si sono estinte o restano circoscritte a nicchie di persone che sono poi quasi sempre dileggiate e considerate folli perché non seguono le correnti di pensiero in auge. Ovviamente sappiamo che ci sono miriade di persone che giocano, anche sporco, sul mondo dell'occulto e del cosiddetto trascendente, però non dobbiamo sottovalutare il motivo di tutto ciò: la sete di sapere dell'uomo, la necessità spirituale di non accontentarsi delle formulette e delle considerazioni della ragione. Sono dell'opinione che si debbano fare sforzi per cercare di riunificare il più possibile le arti e assommare anche altre materie, anche solo per curiosità e cultura di massima. Constatiamo che uno dei precetti della scuola pubblica è (dovrebbe essere) l'UNITA' DEL SAPERE! Se c'è un luogo dove questa massima è lontana mille miglia dall'essere non dico raggiunta, ma anche solo minimamente ricercata, è proprio la scuola. Ci sono dentro, senza contare la mia esperienza da studente, da circa 35 anni, e non ricordo di aver conosciuto un docente di lettere con una seppur sommaria cultura musicale, per non parlare dei docenti di lingue straniere o di matematica. Del resto i docenti di italiano solitamente denunciano di saper ben poco anche di matematica (che era un'arte!), quasi nessuno, tranne i diretti interessati, sa granché delle scienze... quanti, se non hanno una passione personale, sanno qualcosa di astronomia? Questo perché, rispetto al sapere di qualche secolo fa, le nozioni sono aumentate in modo straordinario, e la cultura di Dante o Pico, oggi risulterebbe, forse, insufficiente. Ciò però non giustifica la separazione e addirittura l'ostilità verso determinati campi e fonti informative.
Tutto ciò ha qualcosa a che vedere col canto? Per la verità mi interessava fare questa riflessione in modo generico, però è chiaro che il canto c'entra! Prima di tutto perché il canto, non solo inteso nella sua componente musical-teatrale, ma anche solo intesa come capacità di emissione, è da considerare arte, con tutto ciò che comporta. Ciò determina anche che deve trovare le connessioni con più rami possibili delle altre aree conoscitive. Se ho potuto scrivere tanti messaggi interessanti in questo blog e se trovo sempre più aspetti fondamentali nell'insegnamento e nella pratica musicale e canora, è dovuto al fatto di "curiosare" in letture e ascolti di tutt'altri campi, cercando di evitare quei preconcetti e prevenzioni che ci appartengono per istinto. Ci vuole elasticità e COMPRENSIONE! il termine "comprendere" va inteso proprio nell'accezione di "mettere dentro, annettere, far proprio". Lo dico anche ai miei allievi. Prima di "giudicare", che di per sé è sempre un moto erroneo dell'uomo, cercate di comprendere, cioè di valutare il perché si fa o non si fa in un certo modo. Chi studia con un determinato insegnante, dà per scontato che quello è l'unico modo ed è quello giusto. Fino a un certo punto è comprensibile e giusto, perché se noi partissimo sempre col dubbio, non troveremmo mai una strada sicura. Però non ci si deve accontentare degli assiomi, cioè di formule che non vengono dimostrate perché... "è così", "si è sempre fatto così", e via dicendo. Le spiegazioni ci sono e devono essere fornite, anche se non necessariamente devono appartenere al mondo della scienza e della ragione, come oggi si vorrebbe, appunto perché, come ho scritto più sopra, i collegamenti e le intuizioni, ovvero la Conoscenza dell'uomo, che esiste in quanto propria della forma umana, non deve essere sottovalutata o rifiutata (meglio, sacrificata) in nome di una scienza algida e distaccata. Anche perché senza la prima, comunque non si sarebbe potuto sviluppare nemmeno la seconda! Quindi quando si ritiene che un certo modo di fare (nel nostro caso diciamo di cantare) non sia giusto, dobbiamo avere consapevolezza del perché. Cioè, se io dico a qualcuno: "guarda che non si canta in quel modo", costui potrebbe giustamente replicare: "e perché? chi lo dice? Se a me piace cantare così, perché non devo farlo?". Quindi ci vuole una risposta che non sia, a sua volta, assiomatica, quindi, non perché "lo dice il mio maestro", "non si fa", e formulette generiche. La risposta deve avere implicazioni ben più ampie, tipo "questo modo di cantare porta a usura dell'apparato", e poi spiegare perché, in quanto anche questa frase di per sé potrebbe essere arbitraria, quindi bisogna fare esempi, indicare il ruolo del fiato e far comprendere quanto sia diverso e salutare far sì che la voce corra liberamente per azione respiratoria rispetto a un suono frenato da parti dell'apparato che si frappongono, che arginano, che offrono resistenza e impediscono la libertà. Anche in questo caso potrebbe non servire a niente, ma intanto magari si è instillato il dubbio e si sono offerte diverse chiavi di lettura. Ma sempre con cortesia, col disinteresse personale.

mercoledì, luglio 11, 2018

La voce "diversa"

Ormai da tempo si è inoculata nella testa dei più che la voce dei cantanti di musica lirica sia "diversa", cioè poco o niente abbia a che spartire con la voce che utilizziamo quotidianamente per parlare, gridare, canticchiare. Alla base di questo colossale equivoco ci sono due fondamenti: 1) in parte è vero, perché indubbiamente la voce di chi canta l'opera o un repertorio "classico", è particolarmente ricca, timbrata, estesa, il che contrasta nella maggior parte dei casi con la voce "naturale", o spontanea, che risulta piuttosto rozza, limitata; 2) il fatto che nel tempo, e sempre più, si faccia ricorso a artifici di emissione, che con alquante varianti, fanno comunque riferimento a un unico sistema che possiamo tranquillamente chiamare "ingolamento", il quale crea istantaneamente una timbrica apparentemente più ricca e particolare (se ne può sentire in questi giorni un chiaro esempio nella pubblicità della carne Manzotin, quando un anonimo, in conclusione, canta "i-ta-li-a-no". E' anche quello che fanno i bambini istintivamente quando gli si chiede: "com'è il canto lirico?"; il re è nudo (cit). Albergando questo concetto nella mente della maggior parte delle persone, ne discende che chiunque si avvicina al canto lirico è indotto a pensare che lo studio consisterà nell'applicare tutta una serie di azioni che produrranno quelle modifiche alla voce che ne comporteranno quella modifica auspicata. Molti insegnanti fin da subito daranno consigli e faranno applicare formule mentali e fisiche per cui in breve tempo sorgerà una voce "diversa", nella direzione, per l'appunto, di una voce "lirica". Quando qualche allievo appena giunto da me, meglio se proveniente da altra scuola, è stato invitato a fare esercizi sul parlato "semplice", abbandonando timbrature e storture varie, dopo poco non ha potuto evitare di chiedere, magari anche piuttosto preoccupato: "ma la voce lirica?". Quindi emerge quel "tarlo" che si è ormai radicato nella mente di quasi tutti. Eppure se voi sentite tanti cantanti di un tempo, e confrontate la loro voce parlata con quella cantata, si evince che non c'è una gran differenza, anche se è perfettamente compatibile anche con il grande canto artistico. Oggi quando il parlato emerge più del solito, saltano fuori i soloni a esclamare: "eh, ma questo è un canto da musica leggera!", oppure: "eh, ma questo è un canto non impostato!". Già, accanto a "voce lirica", il secondo termine ormai abusato è "imposto" o "impostazione". In particolare in campo femminile si utilizza il termine proprio a significare: "commuta apparato!" Come se avessimo un apparato per il canto lirico e uno per tutto il resto...! Ho sentito io stesso sentir dire a una cantante: "anche quando si parla in scena bisogna usare l'imposto". Il che poi si traduceva nell'usare il falsetto (ma guai a dire che stava cantando in falsetto!), anche sulle note centro gravi. Se non usi il falsetto sui centri, non sei impostato! Cioè qui siamo ormai al delirio. Se usi il petto dove va usato, con una educazione consona, ti dicono che "è basso", "non impostato" (infatti per molti "petto" significa voce non in maschera, non appoggiata, non impostata, quando tra le due cose non c'è alcuna relazione). Ma qual è l'altro problema che sta alla base di tutta questa situazione? La totale mancanza di capacità di ascolto. Tu dici che non ho imposto? Allora mi fai cantare in un locale di ampie dimensioni mi vai ad ascoltare a distanza e percepisci se centri e acuti si sentono allo stesso modo. Questo è avere un buon imposto. Cioè avere voce che spande, che "corre". E infatti sempre più si fa ricorso a varie forme di amplificazione elettronica, sia per evitare che si sentano disuguaglianze nei vari settori vocali, sia che si avvertano disuguaglianze TRA i vari cantanti, sia per evitare che le incapaci regie e scenografie, che fanno assumere posizioni inadatti e utilizzano materiali acusticamente inadatti, siano di impaccio allo spettacolo. Tra un po' di tempo diventerà tutto un musical, con tutti i cantanti dotati di microfonini alla bocca, che potranno quindi muoversi agilmente sul palco, senza preoccuparsi di rivolgersi al pubblico, e studiando un anno o due, giusto per dire che ha studiato. Ma di che stiamo a preoccuparci? 
Qualcuno però può ancora insistere: "ma allora la voce lirica non è diversa? Come si ottiene?" Come ho già spiegato in mille occasioni, ma non mi spazientirò mai a ripeterlo, la voce si educa, e come qualunque azione educativa richiede tempo, molto tempo, e i frutti si colgono solo poco alla volta. La voce non denuncia particolari cambiamenti, ma si modifica nella sua essenza, acquista "velocità", uguaglianza, spessore, varietà espressiva. Come diceva Celibidache, è una potenza "di dentro". Questo cambierà poco a poco anche il timbro, che acquisterà ricchezza armonica e di colori. Anticipare i tempi, significa rovinare tutto. E' come togliere una torta dal forno prima del tempo, si sgonfia. E' un'evoluzione che richiede un coinvolgimento fisico ma anche psicologico profondo, è una crescita artistica che deve necessariamente passare per la coscienza, altrimenti non potrà durare. Il canto è voce parlata all'ennesima potenza. Non altro.

domenica, giugno 17, 2018

Uniformare

L'uniformità di cui scriverò non è quella vocale, perlomeno non direttamente. Parlo delle nostre corde vocali.
Come forse sarà noto, quelli che vengono usualmente definiti "registri" della voce dipendono da due atteggiamenti delle corde vocali e da due meccaniche muscolari. Ma non solo. Mentre il cosiddetto registro "di petto" che investe la voce che si usa normalmente nel parlato quotidiano, coinvolge la parte più muscolare e "spessa" delle c.v., il registro acuto interessa maggiormente il bordo, che è formato da fibre connettivali, quindi si presenta solitamente più duro, rigido e quindi più difficile da mettere in vibrazione, perlomeno nella maggior parte dei casi, e perlomeno per un certo periodo di tempo. Questo fatto cosa determina? che quando si vuole cantare "naturalmente", si incontra, ascendendo nella scala, sempre più difficoltà. Questa difficoltà genera o l'assoluta impossibilità di superare un certo limite, oppure, facendo leva sulla forza fisica, la possibilità di salire ancora, ma in quella condizione "aperta", deplorata dalla quasi totalità degli addetti ai lavori, in quanto sguaiata e sgradevole. Quando non si riescono a produrre suoni appropriati, è anche facile, in campo maschile, cadere nel cosiddetto "falsetto" (meglio, a nostro avviso, definirlo "falsettino"), che è un'ulteriore conseguenza di quanto ho scritto sopra: siccome il bordo della corda è molto teso e quindi difficile da mettere in vibrazione, succede che la corda "fischia", cioè produce un suono armonico più elevato di un'ottava, che non gode, ovviamente, dei requisiti di una voce cantabile. Alla base del problema c'è, ovviamente, e in primo luogo, la condizione respiratoria; essa non ha, nella sua globalità, la capacità di mettere efficacemente in vibrazione il bordo cordale, o in modo insufficiente. Conseguentemente noi dobbiamo constatare che in questa fase le corde vocali sono disomogenee, risultando una parte più morbida ed elastica, una parte più coriacea e resistente. Questa è anche una - o la - spiegazione del fatto che la voce risulta spezzata grossomodo in due ottave negli uomini (poi farò una precisazione per le donne) dove la seconda è molto più impegnativa della prima. La notizia buona è che quella parte di corda di bordo, si può modificare. Però non si modifica da sé, e non si modifica mediante "manovre", meccaniche, trucchi ed escamotage i più tortuosi che la mente possa concepire. Il colore oscuro può risolvere il problema? No, o perlomeno solo parzialmente. Il colore oscuro crea delle condizioni che investono il fiato-diaframma per cui si possono ridurre le conseguenze delle reazioni istintive (cioè il sollevamento della base del fiato, o spoggio). In questo modo si può guadagnare qualche semitono e persino (nel tempo) tutta la porzione di gamma superiore. Però non è una soluzione, ma un "tenere a bada". Utilizzando il colore scuro sul passaggio, si genera una maggior forza e una condizione pressoria che può impedire (non è detto) il sollevamento della base, ma la corda non modifica più di tanto la propria struttura. Però può essere una soluzione temporanea per cominciare a indurne la vibrazione, specie in quei casi molto ostici. La vera soluzione, che in qualche modo ho già descritto alcune centinaia di volte, riguarda sempre e solamente la "cura" evolutiva del fiato. Attraverso opportuni esercizi sul parlato,  normale e intonato, si stimola un'esigenza di modifica interna all'apparato respiratorio che si èleva a motore dell'apparato vocale in ottica artistica. La parte difficilissima riguarderà proprio l'esercizio sulla zona acuta. Sarà da fare? certamente, non si può omettere. Si può esercitare anche col falsettino? Sì, è una buona pratica, perché comunque allena il fiato e permette di capire come sarà la vocalità quando saranno escluse le reazioni; esercitare la voce con le difficoltà imposte dalle resistenze interne, darà invece l'immagine di continue difficoltà che il nostro cervello riterrà di dover superare con il mezzo più comune a sua disposizione, cioè la forza muscolare. In alcuni casi, però, il bordo della corda può fare effettivamente molta resistenza a vibrare completamente. Se la cose non si sblocca in tempi brevi (ma non vuol dire in giorni o settimane), occorrerà fare uso anche di vocali scure, e in particolare della "U". Qui però dobbiamo fare un'importante precisazione. La U scura può comportare una pressione verso il basso. Questa assolutamente non va bene. La potremmo definire, più che scura, "buia". Occorre assolutamente sviluppare una U "chiara", cioè proiettata in avanti e con la stessa luminosità di una A. Quando questo si sarà ottenuto, conquistando una nota dopo l'altra, la corda comincerà a vibrare correttamente. In questo modo si potrà raggiungere, nei tempi necessari, l'omogeneità cordale, cioè la possibilità che le c.v. vibrino nella loro interezza, perdendo quindi quella parzialità che determina anche lo spezzamento dei registri.
In campo femminile le cose stanno nello stesso modo, però il problema si presenta un'ottava sotto. Questo determina una percezione psicologica diversa e anche un approccio differente. Siccome la corda di petto vibra solo per pochi semitoni, almeno nei soprani, la cura più comune è stata quella di ignorarla. Un errore gravissimo! Il falsetto nella donna è vero che solitamente è più duttile, a causa della più ridotta dimensione, ma la disomogeneità è comunque presente e potrebbe rimanere per sempre (come rimane in una maggioranza di cantanti, persino mezzosoprani) se non si passa a quella "cura" già vista per tutte le voci, cioè far sì che con opportuni e ben mirati esercizi che prendano le mosse da un vero parlato, non si stimoli l'esigenza di una diversa alimentazione respiratoria. Anche in questo caso l'utilizzo saltuario di una "U chiara", può essere consigliato. Anche nella donna, poi, abbiamo il problema della seconda ottava, più precisamente a partire dal re4 (talvolta anche do#) quando la componente della corda spessa non può più collaborare. Ma non ci sono particolari differenze didattiche. Almeno per due-tre semitoni è possibile e doveroso esercitarsi con il parlato e il sillabato, e con un po' più di frequenza anche con la U chiara.

domenica, giugno 10, 2018

Non provocare

Torno ancora una volta sul tema della respirazione artistica. Non si dirà mai abbastanza che il nostro corpo non è un semplice meccanismo; quando noi compiamo un'azione che lo coinvolge, possiamo aspettarci una reazione. Se non teniamo conto che il corpo, ovvero la mente che lo controlla, reagisce, dobbiamo anche renderci conto che non stiamo usando l'intelligenza. La maggior parte delle persone che studiano e insegnano canto, per carenza di umiltà, oltre che di uso dell'intelligenza e del pensiero, sono convinte che si debbano fare determinate cose per cantare, e che il nostro corpo le accetterà supinamente. E' esattamente il contrario, ma proprio perché il nostro corpo possiede una sua intelligenza, spesso ci inganna, quindi si constatano determinati risultati come una vittoria, ovvero come la conseguenza che facendo quelle determinate cose, si consegue una certa abilità. Quando i risultati non sono eccellenti, si ritiene che non ci si eserciti abbastanza, non si capisca, o ci siano carenze "tecniche". Ogniqualvolta noi applichiamo un meccanismo nei riguardi del nostro corpo, specie se questa azione non ha una ragione che investa la nostra vita vegetativa o di relazione, dovremo aspettarci delle reazioni, delle conseguenze. Le quali arriveranno, ma con l'esercizio, cioè replicando frequentemente determinate azioni, si può ottenere di migliorare il risultato, perché esiste una tolleranza, cioè l'istinto allarga le maglie dell'accettazione. Senza per questo cessare di considerare intrusiva, indesiderata, quell'azione, quindi tornare a combatterla appena cesseranno gli esercizi. Alla base delle correnti didattiche, c'è un ulteriore equivoco, e cioè che gli apparati debbano compiere delle azioni volontarie per cantare; in questo si fa una grave confusione, cioè non si considera che il fiato deve assumere il ruolo erroneamente attribuito alla muscolatura degli apparati. Naturalmente non il fiato fisiologico, che non possiede le virtù, le capacità intrinseche, di produrre il vero canto artistico, anche quando molto sviluppato, ma quello che definiamo evoluto, cioè che ha assunto un più alto valore conoscitivo. Le fasi dell'evoluzione respiratoria possiamo sintetizzarle schematicamente in due periodi: una fase in cui grazie a esercizi vocali mirati, si creano esigenze respiratorie diverse da quelle fisiologiche, legate a un uso elevato della parola, che richiederà sonorità, ampiezza, espansione, espressività; una seconda fase in cui queste esigenze determinano anche modificazioni fisiologiche e persino anatomiche per consentire l'evoluzione vocale auspicata ("galleggiamento"). Riprendendo quanto detto sopra, noi dobbiamo raggiungere una condizione in cui non ci sia alcuna azione che possa generare reazione, perché la reazione è quella che ci impedisce di esperire una vocalità libera. La situazione che più ci penalizza riguarda la ricaduta delle costole in fase espiratoria. Una volta preso fiato, la gabbia toracica tenderà a richiudersi e quindi a premere sui polmoni e quindi sul fiato, ma quindi anche sul diaframma. Questa chiusura determina condizioni decisamente negative riguardo l'emissione vocale, e in particolare determinerà una mancanza di omogeneità nel tempo, nel corso dell'emissione stessa, perché si modifica la pressione dell'aria, che sarà minore all'inizio e maggiore man mano che le costole ricadono. Gli antichi trattatisti parlavano di "sostenutezza del petto", proprio a ricordare che il torace, "scatola" dei polmoni, non si deve richiudere nel tempo del canto, ma deve rimanere ampia e aperta, onde consentire al fiato di non restare oppresso, schiacciato. Questa azione meccanica (nell'azione fisiologica naturale) ha anche un serio risvolto nel canto: va a insistere alla base della laringe (pressione sottoglottica), incentivando la sua azione valvolare fisiologica, che è decisamente opposta a quella "musicale" che invece noi vogliamo esaltare. La soluzione di tutto questo sta nel "galleggiamento", che non è una ricetta miracolosa, non è l'escamotage, non è l'ennesima trovata "segreta" che risolve ogni e qualsiasi problema, come tante se ne sentono. E' un percorso con solide basi e che richiede un impegno non facilmente affrontabile da chiunque. Non c'è nulla da "fare", c'è da seguire un piano programmatico fatto di concentrazione e di ascolto. Non è facendo due ore di esercizio al giorno che si ottiene, è riflettendo ed esercitandosi costantemente anche pochi minuti, ma con quell'attenzione che richiede un completo coinvolgimento. Quando la fase uno va a terminare, cioè dopo un certo tempo in cui ci si è esercitati con la parola e con tutte quelle pratiche che portano a una modificazione qualitativa del fiato, si dovrà passare, nei tempi e modi imposti dall'insegnante, a un cambiamento posturale. Il m° Antonietti utilizzava un'esortazione per far assumere rapidamente la giusta postura: "datti delle arie". In effetti, anche guardando alcune silouette di cantanti ottocenteschi, si nota questa postura "nobile", che può anche far pensare a un atteggiamento un po' snobistico, presuntuoso, che è invece proprio quella "sostenutezza" del petto che è indispensabile, a un certo punto, per escludere dal processo vocale quella pressione che impedisce alla laringe di operare in libertà. Affinché il canto sia puro e vario nei colori e nelle dinamiche, ogni più piccola vicinanza all'apnea deve essere eliminata. Il che significa che il petto non deve mai ricadere, durante tutto l'atto vocale, vuol dire che la muscolatura relativa all'inspirazione deve sempre rimanere attiva, vuol dire che il fiato entra ed esce senza coinvolgere la muscolatura espiratoria, ma solo grazie all'elasticità polmonare. Polmone il quale per poter operare nel modo più efficace, dovrà orientarsi maggiormente nelle componenti orizzontali, cioè svilupparsi verso le ascelle e verso il petto e la schiena. Dopodiché alcuni muscoli esterni, in particolare i "dentati" dovranno sostenere il petto affinché il fiato galleggi e non prema da nessuna parte. Deve essere una vera condizione di galleggiamento, un po' impegnativa per qualche tempo, ma molto piacevole ed entusiasmante, poi. Quindi una respirazione toracica, che molti demonizzano perché porterebbe a quella respirazione apicale che può risultare dannosa. Ci può essere del vero; la respirazione toracica è da considerare INTEGRATIVA, cioè non deve essere praticata in tempi precoci, come si è detto sopra, interviene solo nella seconda fase, quando grazie a sapienti esercizi, si sono ridotte le possibili azioni e contestuali reazioni. Sarà come elevarsi su un cuscino d'aria, su una nuvola. Premere su quel cuscino sarebbe letale per una buona vocalità. Molti trattatisti, docenti, cantanti, mal interpretando il concetto di "sostenutezza" (ovvero omettendo quel "del petto"), hanno inventato di sana pianta il "sostegno della voce", che in realtà non ha alcun significato, se non omologo dell'appoggio. Ma anche su questo la trattatistica ha fatto a pezzi il senso artistico del concetto: appoggiare non significa, non DEVE significare, premere, fare forza o una qualsivoglia pressione. L'appoggio è qualcosa di naturale, soffice e involontario. Nessun cantante deve appoggiare in senso attivo, cioè provocare azioni verso il basso, che contrastano la normale e naturale fuoriuscita del fiato; è vero il contrario, cioè che l'appoggio esiste da sè, e non dobbiamo mettere in atto attività che contrastino, o meglio non dobbiamo provocare reazioni che ci portino verso lo spoggio.

martedì, maggio 22, 2018

Voce che corre e voce ferma

Quando l'espirazione non è totalmente libera, cioè quando il fiato incontra qualche ostacolo, è quasi certo che si produca una qualche forma di suono o rumore. Quando poi entra la volontà di cantare e quindi si adducono le corde vocali, il fiato non incontra solo quelle, ma tutto il complesso laringeo. Spiego meglio: trovando il "tappo" delle corde vocali, la pressione del fiato che risale aumenta e quindi il diametro della colonna d'aria. Pensiamo a un tubo che porti acqua: se impedisco all'acqua di uscire, la pressione interna al tubo aumenta e questo causa un aumento del diametro del tubo (dipende ovviamente dal tipo di materiale). Nel nostro caso ciò significa che la spinta aerea investe tutta la parte inferiore della laringe, per cui a "suonare" non sono solo le corde vocali, ma anche altre parti della laringe, muscolari, tendinee e persino cartilaginee. Oltre a ciò, anche nella parte sopraglottica possono avvenire frizioni che causano suoni e rumori. Lo spazio faringeo al di sopra delle corde vocali, durante la fonazione, è possibile e probabile che si restringa, sempre a causa della pressione sottoglottica. Quando l'aria non fluisce regolarmente e con pressione superiore a quanto necessario per vincere la resistenza delle corde, la laringe viene richiamata alla sua funzione valvolare, per cui tende a frenare, occludere il condotto, e questo, come è facile immaginare, produrrà ancora un aumento della pressione che spingerà la laringe verso l'alto e produrrà una riduzione dello spazio laringeo sopraglottico, in quanto a causa della chiusura laringea si riduce la pressione sopra di essa. Molti insegnanti di canto esortano gli allievi ad "aprire la gola", ovviamente facendo uso della muscolatura faringea. Gli stessi insegnanti, o altri, indurranno anche gli allievi a premere sulla laringe verso il basso. Questo, evidentemente, per contrastare la risalita di cui sopra. Questo è un meccanismo perverso che non ha nulla a che vedere con un buon canto. Il cantante esemplare non dovrebbe trovarsi mai in questa situazione, e in fondo la soluzione non è così difficile da individuare. Se si evita di produrre un eccesso di pressione, quindi si evita di spingere, di gridare, e si mantiene una fluidità simile a quella dell'espiro comune, già si evitano delle aspre conseguenze. Ma il canto necessita di qualcos'altro, cioè di un prolungamento della parola, e dell'uso di una porzione ampia della gamma vocale, molto superiore a quella che si usa nel parlato comune; questo è un risultato che si otterrà con la progressione di esercizio.
Mi sono un po' allontanato dal tema del post, ma ora si comprenderà lo scopo della premessa. Solo le corde vocali sono in grado e in condizione di emettere suoni puri, realmente piacevoli, ricchi, che possono parlare alla nostra anima, cioè senza interferenze, senza frapponimenti che impedirebbero quel dialogo tra coscienze che è l'obiettivo di una disciplina artistica. Quando il fiato non fluisce in purezza, non potrà produrre suoni in purezza, ma fibrosi, rumorosi, non perfettamente intonati, non facilmente modulabili espressivamente e musicalmente. Ora veniamo al cuore del problema. Una voce posta come noi auspichiamo, cioè pura e fluida, oltre ad avere tutte le possibilità di gestione, "correrà", cioè si espanderà nell'ambiente con facilità, mettendo in vibrazione tutta l'aria contenuta nello spazio acustico e rimbalzando rapida sulle pareti e creando quindi una rete acustica di straordinaria efficacia. Queste voci si sentiranno sempre e comunque, indipendentemente dalla potenza, dalla forza intrinseca "fisica". Le voci che fanno affidamento sulla forza, sono voci "rumorose", che richiedono grande possanza fisica, che sicuramente in vicinanza faranno impressione per la quantità di suono espressa, ma sono voci sostanzialmente "ferme", cioè voci che non corrono, che non riempiono lo spazio.

domenica, maggio 13, 2018

La convivenza

Il nostro istinto, potrei dire il nostro corpo, non accetta o addirittura rifiuta il canto artistico, in quanto sconosciuto ma soprattutto in quanto minaccia per il corretto utilizzo del fiato inteso come scambio gassoso e in subordine come aiuto alla postura eretta. Da qui nascono tutte le difficoltà e di conseguenza le carenze e i difetti di una corretta vocalità. Due sono i percorsi possibili per affrontare questo confronto: forzare l'istinto a concedere l'utilizzo del fiato per poter cantare al massimo livello possibile, oppure "dialogare" con esso affinché comprenda, accetti la nostra esigenza espressiva e conceda l'utilizzo del fiato per il canto come fosse un altro senso, cioè senza opposizioni. Se si accetta questa visione della questione, si avrà anche coscienza del fatto che nel primo caso il confronto sarà sempre oppositivo, cioè volendo prendere con forza il fiato e utilizzando muscolarmente il corpo per un utilizzo non previsto dalla sua natura fisica, non ci sarà mai accordo; esisterà la tolleranza, potranno esistere situazioni di privilegio (incoscienti), situazioni di casuale fortuna educativa, ma non potrà esistere la SCUOLA e le condizioni che possano forgiare voci realmente libere. Detto ciò resta la difficoltà di spiegare in modo veramente chiaro e convincente in cosa consista la seconda strada, come si possa ottenere. Intanto occorre considerare qualche dato di fatto: chiedere al nostro corpo in un tempo brevissimo di permetterci di fare suoni molto sonori e disposti su una estensione notevole, è il modo più errato che possa esserci, perché significa metterlo subito in forte antagonismo e crearci problemi a non finire che non potremo più risolvere in modo accettabile, se non (ma sempre con gravi limiti) sviluppando forze fisiche in grado di combattere le reazioni quasi allo stesso livello; ovviamente occorre avere potenzialità fisiche non indifferenti, il che non è da tutti. In quel caso, comunque, mai si potrà parlare realmente di canto artistico. Da qui possiamo anche desumere che la strada corretta sarà quella opposta, cioè NON FORZARE, non anticipare i tempi, e non seguire percorsi meccanici e fantasiosi, ma proseguire ciò che in parte noi già possediamo, cioè la parola, facendola evolvere prima in quanto parola stessa, quindi applicandone l'intonazione e quel "prolungamento" sonoro che poi è il canto. Questa è già una situazione positiva, che anche alcuni (pochi) insegnanti, credo quasi del tutto inconsapevolmente, seguono ottenendo buoni risultati. Non è un caso se oggi alcuni buoni cantanti provengono da una buona musica leggera, dove non si spinge, non si gonfia ma si segue la parola. Questo però non porta ancora a un superamento dell'opposizione, ma solo un buon compromesso, che può anche essere una buona strada, ma non quella risolutiva. Affinché l'istinto possa concedere l'utilizzo del fiato a scopo artistico-vocale riconoscendo questa esigenza personale, consentendone quindi una parziale commutazione dallo scopo fisiologico a quello espressivo, occorre una condizione essenziale, e cioè che le caratteristiche del fiato non siano quelle comuni, ma che esso abbia compiuto un'evoluzione che consenta la "convivenza". Spiego meglio: Nel momento in cui io mi metto in una condizione vocale di tipo artistico, cioè omogeneità di voce su circa due ottave con la massima sonorità possibile e tutte le caratteristiche espressive necessarie, il fiato fisiologico comune, anche se particolarmente privilegiato dalla natura, non basta ad assicurare l'istinto che nel momento in cui si canta, ovvero si prolungano gli atti respiratori per tempi molto più ampi rispetto il solito, ci siano le condizioni affinché la fisiologia respiratoria necessaria non ne abbia detrimento. Questo comporta una modificazione del funzionamento polmonare. Quelle scuole e quei cantanti che privilegiano la componente addominale della postura respiratoria, di fatto privilegiano la quantità e possono solo contare su questo e sulla prestanza fisica; viceversa l'esigenza respiratoria orientata al canto di alta classe, farà evolvere la respirazione ma non solo inteso come fiato, aria, ma come complesso anatomico. Cioè muscolatura respiratoria complessiva, diaframma compreso, muscolatura erettiva, quindi esterna, polmoni e laringe, si modificano (o modificano il proprio funzionamento) quel tanto che basta per orientarsi al canto e non più solo alla respirazione. In pratica possiamo dire che l'apparato respiratorio DIVENTA l'apparato vocale. In genere si dice che i due apparati si identificano, ma questo è un errore concettuale. Se dico che la laringe è la valvola dei polmoni, mi riferisco alla fisiologia respiratoria, se dico che è uno strumento musicale, mi riferisco al secondo, però do per scontato che coincidano, mentre non è così. Affinché la laringe si comporti perfettamente come strumento, io dovrò creare le condizioni affinché possa svolgere questa funzione, ovvero dovrò fare in modo che il fiato, educato alla bisogna, "suoni" la laringe come uno strumento; ovviamente allo stesso tempo non può perdere la sua funzione fisiologica, quindi si arriva a una sorta di "sospensiva", cioè durante il canto la funzione fisiologica si "mette in pausa", salvo non subentrino stati di allarme. Quindi è chiaro che la chiave di tutto sta nel fiato, ma tutte le chiacchiere che si fanno nelle scuole di canto, compresi libri, trattati, ecc. non arrivano mai a una conclusione fondata. Il polmone quindi deve modificare l'esercizio del suo funzionamento nella componente temporale, ovvero rilasciare il fiato in modo costante, e questo può avvenire solo se esso non subisce pressioni da nessun lato, quindi essere nelle condizioni di avere il massimo tempo possibile di scambio chimico e, dall'altro lato, poter lasciare la frase canora anche molto lunga senza penalizzazione. Allo stesso tempo deve conferire al fiato stesso e quindi alla voce condizioni di energia tali da poter conseguire la sonorità massima e la proiezione più efficace, sempre con un contributo minimale di forza. Quindi tutto dipenderà da come si organizza il polmone. Ecco perché le antiche scuole puntavano così tanto sulla respirazione toracica, e potevano farlo anche da subito, perché partendo dal parlato non mettevano il fisico in condizione oppositiva. Oggi, che si vuol partire dal vocalizzo, magari subito forte e magari già su estensioni ragguardevoli, partire dalla respirazione toracica sarebbe un rischio serio, perché le reazioni porterebbero a un sollevamento complessivo del fiato, quindi spoggio e utilizzo apicale dei polmoni, con gravi conseguenze. Quindi in questo l'intuizione perlomeno è più corretta; la respirazione diaframmatica consente un miglior controllo delle spinte spoggianti. La respirazione toracica, quando rientrante in una fase progressiva corretta di sviluppo (integrazione), consente di gestire quantità e qualità, grazie all'elasticità complessiva del polmone e alla funzione della pleura, ma anche alla capillare rete degli alveoli, che potranno svolgere il doppio compito, quindi non saranno più inerti, passivi, ma potranno adoperarsi per conferire quella qualità al fiato indispensabile per un canto esemplare. Oltre a ciò, come si può desumere da quanto suddetto, è fondamentale che la postura del corpo vada nella direzione di evitare che la gabbia toracica, spalle e quant'altro, gravino sul fiato, quindi è necessaria, indispensabile, un "galleggiamento" del fiato, libero da ogni pressione, condizionamenti e forza da qualunque parte, il che si realizza con quella orizzontalizzazione a "pallone da rugby", cui faceva molto spesso riferimento il m° Antonietti. Questa è la vera e unica componente atletica del cantante.

lunedì, aprile 30, 2018

Spingi e Premi

Uno dei difetti che rilevo in quasi tutti (il quasi è di circostanza) coloro che studiano o vogliono studiare canto o cantano proprio, è il fatto di premere e spingere, vuoi in avanti, vuoi da sotto. Credo, così giusto per fare un po' di riflessione, che ancora una volta il problema risieda nelle scuole di canto soprattutto degli ultimi 100 anni (progressivamente in crescendo venendo verso il presente), anche se è probabile che almeno in parte la questione risalga anche a qualche ulteriore decennio indietro. Cioè da quando l'insegnamento del canto è partito dal vocalizzo, invece che dal parlato. Il parlato pone l'allievo in una condizione di maggiore naturalezza, rilassatezza e necessità di non creare condizioni particolari e "artificiali" di emissione della voce. Il vocalizzo, viceversa, pone subito dei problemi e quindi anche la necessità di superarli. Questo si rivela macroscopicamente quando si passa dai vocalizzi al canto, quando il fatto di dover articolare e in modo "disordinato", rispetto alla regolarità di scale e arpeggi degli esercizi, e alla uniformità di una sola vocale, crea grossi problemi, che solitamente vengono superati ricorrendo a tecniche e artifici, che di solito si concretizzano in "non" pronunciare, ovvero "uniformare" rispetto a una sola vocale (che poi significa macellare la pronuncia) e tenendo il suono indietro, che abbassa le esigenze di proiezione. Come credo sia noto, fino a un certo periodo lo studio del canto iniziava con il solfeggio, che è di fatto un parlato, ma non buttato lì a caso ma meticolosamente sorvegliato e corretto dall'insegnante, prima parlato quindi intonato. Il passaggio al vocalizzo avveniva, come deve avvenire, non modificando le vocali rispetto a quanto accade nel parlato. I maestri facevano, di conseguenza, studiare i brani prima facendoli recitare, poi intonare anche su una sola nota, indi su più note ma eventualmente su una tessitura consona al grado di sviluppo dell'allievo, mantenendo rigorosamente la stessa comprensibilità del testo che si ha in un ottimo parlato. La pressione che l'allievo è indotto a esercitare, come la spinta soprattutto in avanti, che distruggono la pronuncia e rendono impuro, "rumoroso" e persino fastidioso il canto, sono questioni che attengono soprattutto al narcisismo insito in ognuno di noi. La fretta, ulteriore problema, di farsi sentire, di fare il cantante lirico con un vocione, con gli acuti, che nei sogni di ciascuno paralizza e manda in visibilio il pubblico, induce a cercare di "buttar fuori" più voce possibile, pensando che la spinta sia la soluzione. Purtroppo non è così, anzi è quasi il contrario. E' come pensare che il modo più rapido per srotolare la cintura di sicurezza sia tirare forte. Come è noto, la cintura si blocca e ostinatamente si rifiuta, mentre con leggerezza e regolarità, essa si lascia svolgere senza presentare resistenze. La pressione crea un blocco, la spinta crea un ingorgo, e in ogni modo si creano reazioni che impediscono quella scorrevolezza, quella libertà e quella ampiezza di risultati che dovrebbe essere la méta suprema di qualunque cantante che usi la testa, prima della pancia, nell'affrontare questo studio. Questo però è impedito in primis proprio dagli insegnanti, che riempiono la testa di idee balzane e prive di fondamenti, senza mai (poter) spiegare il perché di certe scelte. Dunque, il vero primo obiettivo di ogni persona che ambisca a cantare artisticamente, dovrebbe essere quello di eliminare spinte e pressioni, il che suscita molti problemi a quella parte di noi che vorrebbe subito risultati stupefacenti, e quindi senso di frustrazione. Lo studio del canto va paragonato a chi voglia studiare una qualunque arte. Per imparare a gestire una matita, ai deve iniziare con fare aste. Fino a una certa epoca, a scuola si iniziava così, e guarda caso una volta le persone avevano una calligrafia molto ordinata, ben comprensibile, e in molti casi bellissima, ricercata, piacevolissima. Ma la questione è che in ogni caso la media era molto elevata. Scrivere bene evitava anche tanti errori di ortografia, perché dovendo curare la scrittura, c'era anche il tempo di verificare cosa si scriveva (la questione tempo prima o poi la affronterò anche su questo blog). Oggi le persone più giovani (ma neanche poi tanto) scrivono malissimo, spesso non si capisce niente, e con parole zeppe di errori. Uno dei sistemi che si sono escogitati per ridurre gli errori, è farli scrivere col computer (ma c'era già un analogo progetto 40 anni fa, utilizzando la macchina da scrivere), perché il dover individuare i tasti giusti per scrivere, fa sì che ci sia un tempo per pensare e scegliere meglio. Comunque si veda che il problema di fondo è sempre la fretta. "Imparare a suonare in 10 lezioni"; "impara a parlare una lingua straniera in 3 mesi"; e così via. Uno dei problemi della scuola è proprio il suo ritmo ancorato alle metodologie classiche, per cui in tre anni non si parla una lingua, non si suona (compiutamente) uno strumento, ecc. Cioè, per dirla in una parola, non ci si ACCONTENTA. Ma dire che non ci si accontenta, non significa che bisogna puntare basso, al modesto risultato, ma proprio al contrario, cioè non bisogna avere fretta, si deve partire dal piccolo, dall'estremamente semplice, elementare, cioè dal "mattoncino", che insieme a tantissimi mattoncini svilupperà la cattedrale, il castello, il ponte, ecc. Voler "gonfiare" il mattoncino per avere l'illusione che sia una casa, senza rendersi conto che dentro non c'è niente, solo aria (spesso fritta), senza alcun significato, è solo alimentare il proprio narcisismo, e andare incontro a fallimenti e reali e pericolose frustrazioni, o vivere per sempre nell'illusione e/o nella menzogna anche con sé stessi.

domenica, aprile 22, 2018

Antiche voci "spoggiate"

Sentendo oggi le registrazioni di voci dei cantanti attivi o in via di pensionamento all'inizio del 900, ci appaiono per lo più "vuote", prive di appoggio (direbbero o dicono oggi molti cantanti e insegnanti). E' veramente così? Naturalmente no; basta fare un po' di ricerca sui periodici musicali dell'800 e primo 900 (oggi possibile via internet senza andare a impolverarsi in biblioteche e archivi storici) per constatare che quelle voci erano considerate potenti, sonore, ricche, estese, ecc, e negli stessi teatri ancor oggi esistenti, quindi non "teatrini", e con orchestre certo non esigue. Dunque? Due aspetti: le registrazioni e le nostre orecchie. Le registrazioni, ieri come oggi, nonostante il presunto sviluppo tecnologico, possono cogliere diversi aspetti di una voce, ma non la capacità di espandersi, diffondersi, "correre". Sarebbe, almeno in parte, possibile mettendo dei microfoni a metà o in fondo a una sala così da cogliere in raffronto, quanto le voci riescono a essere presenti a una certa distanza. Questo però renderebbe le registrazioni molto poco appetibili dal mercato, che vuole la cosiddetta alta fedeltà, ma che realmente è un gigantesco inganno che da quando esiste non fa che corrompere e inaridire la capacità di ascolto, quindi inibire le capacità di cogliere la musica stessa. Se il disco ha questo grave limite, dall'altro ha la capacità di cogliere assai bene i rumori. Nel mondo del digitale, ormai da tempo si cerca di creare strumenti digitali, cioè strumenti dove non si crea un suono acustico dato da una percussione, uno strofinio, una vibrazione d'aria, d'ancia, ecc., ma le registrazioni digitali di questi suoni che vengono associati a tasti di uno strumento apparentemente classico (piano, organo, chitarra, ecc.). Al di là del fatto che questa è una missione impossibile, perché la quantità di informazioni contenute in un brano musicale eseguito almeno decentemente è talmente elevata da richiedere quantità di memoria ed elaborazione al di là di ogni immaginazione. Certo oggi a livello dilettantistico è conveniente far uso di questi strumenti, che costano poco, hanno poca manutenzione e si trasportano più facilmente, ma questo è un ulteriore aspetto che determina involuzione uditiva, infatti molte persone non sanno riconoscere uno strumento digitale da uno acustico... tutto detto. Comunque, dicevo, gli strumenti a percussione (tamburi, piatti, xilofoni, ecc.) sono quelli più idonei alla registrazione, e che rendono anche su apparecchiature modeste. Viceversa violini, flauti, oboi, trombe... risultano sempre molto "elettrici", facilmente riconoscibili nella artificiosità del digitale. La voce... dipende! Una voce ingolata o comunque molto impura, rende molto in registrazione (la campionatura è del tutto fuori portata), cioè la parte "rumoristica" della voce si imprime facilmente e rende la voce apparentemente più ricca, molto sonora. Se ne accorsero già i primi pionieri, come lo stesso Caruso, che in disco faceva la figura di un "tenorone" con un vocione enorme, mentre era un mezzo carattere, e non per nulla uno dei suoi emuli, Mario Lanza, che girò anche un film sul grande tenore napoletano, ebbe (e ha ancora) notevole successo nonostante in teatro abbia cantato poco o niente, in quanto voce poco teatrale. Si potrebbero fare molti nomi, anche recenti, di cantanti molto fonogenici ma di scarsa attitudine teatrale. La questione è che quello che molti definiscono appoggio in realtà è rumore, sono impurità prodotte da movimenti muscolari impropri. La voce ideale non ha "rumori", è pura, anche se ricchissima di armonici e risonanze (anch'esse pochissimo colte dalle registrazioni), ed è proprio in virtù di ciò se la voce si espande e risuona in un ambiente con grande sonorità anche a notevole distanza. Cioè proprio le caratteristiche indispensabili in passato, quando non vi era alcun mezzo di amplificazione che non fosse l'acustica stessa. Quindi non si cerchino in una voce le vibrazioni inopportune e che rendono la pronuncia incomprensibile e i colori del tutto casuali, ma le vere e "sane" caratteristiche di un'autentica voce belcantistica: pronuncia, purezza, varietà, musicalità.

mercoledì, aprile 18, 2018

Del diamante

Il diamante è una pietra durissima ma purissima, carbonio puro, generata da un concorso di forze, pressioni straordinarie, quindi uno dei massimi risultati della fisica, della materia. La forza, la pressione, fanno sì che ogni impurità, ogni traccia di umidità (ossigeno e idrogeno) spariscano, e resti il solo carbonio. La voce umana è il suo esatto opposto. Prendiamo in esame l'aria. L'aria può essere ferma, statica; può muoversi, la brezza, il vento, quindi acquista energia, qualità. Il vento muove cose, foglie, rami, oggetti e provoca rumori e suoni. Rumori e suoni sono condizioni particolari di movimento dell'aria. Il rumore è un movimento irregolare, quindi ha una qualità minore rispetto al suono, che è un movimento regolare, richiede strutture e materiali particolarmente sofisticati e pregiati. Ma questa condizione ancora non basta, quest'aria vibrante può piegarsi al punto di assumere un rilievo significativo, un valore condivisibile; è la parola. Ma la parola è ancora equiparabile al rumore, è una qualità già altissima, ma non il non plus ultra, che si può raggiungere quando la parola diventa vibrazione regolare, quindi suono, ma con quella curvatura non più anonima ma che si eleva a parola. L'uomo può emettere suoni di grande bellezza, ma certo non può competere in questo con alcuni strumenti meccanici di grande fattura, come flauti, violini, violoncelli, oboi, ecc. Ciò che rende inarrivabile la meraviglia musicale umana è il canto, cioè suono, sì, ma con la parola che giunge dal cuore, cioè vera, sincera, reale. La sua più alta possibilità è data dalla purezza, e la purezza vocale è data dalla totale assenza di impurità; ciò che produce il canto, cioè l'insieme di strutture anatomiche, muscoli, cartilagini, tessuti, muscoli, ecc., devono SPARIRE dalla percezione uditiva, ovvero diventare come TRASPARENTI. L'aria passa, muove, solleva, mette in vibrazione, colpisce, turbina, colpisce ancora... bene, ma tutto ciò alla fine è come se non avvenisse, resta solo il risultato di un verbo sonoro melodioso di inestimabile valore spirituale. Le parti anatomiche necessariamente coinvolte, non sono da considerarsi come i martelletti di un pianoforte, le corde o l'archetto di un violino, le ance di un clarinetto. No, questi ultimi sono pezzi di legno, di ferro, sono inanimati e morti; la perizia, l'intelligenza, la grande abilità umana riescono a dar loro un po' di vita per produrre musiche importanti, ma quando un uomo canta non lo fa con elementi morti, ma vivi più che mai, e che non semplicemente restano inerti e si lasciano utilizzare a fini sonori, ma PARTECIPANO (o meglio, possono partecipare) e si fanno parte integrante del processo musicale. Quando leggo articoli e libri o sento le spiegazioni di tanti insegnanti, leggo la povertà dei loro argomenti quando considerano laringi, lingue, diaframmi e fiato come oggetti meccanici, come se l'uomo fosse un robot o un manichino a cui sono applicati fili che si tendono e si rilasciano come in un organo, quando a un tasto corrisponde un intricato sistema di tiranti che liberano aria che va nelle canne, ... e si sente!! Non so quanti hanno mai ascoltato da vicino un organo di qualche centinaia di anni. Da un lato si odono suoni molto piacevoli, ma dall'altro anche un sottofondo di ingranaggi che si muovono con gran fragore (spesso si sente anche da lontano). Ebbene se aguzzate (ma neanche tanto) le orecchie, un analogo fragore si può sentire anche provenire da tanti cantanti che realmente non cantano, ma smuovono fragorosamente i loro meccanismi per produrre qualcosa spesso di indecifrabile, che qualunque strumento saprebbe far meglio. Dunque perché dovremmo dedicare anni di studi, di sacrifici, di angosce, di accesi dibattiti, se non per cercare di raggiungere qualcosa che solo l'uomo ha il potere di fare, cioè sublime musica, messaggi dal profondo a favore del profondo dei suoi simili. Occorre la purezza, e la purezza, per lo spirito, è l'assenza di forze e pressioni, ma è anche un apprendimento che riguarda il fiato, che è il Maestro, che impartisce a tutti gli organi, gli apparati e i condotti che attraversa e che dovranno docilmente cedere, collaborare e partecipare. Il fiato che fa vibrare le corde vocali, non è niente, succede a qualunque animale, il fiato che insegna alle corde vocali a produrre voce è un'estensione dell'evoluzione; poi ci sarà la lingua, il velo pendolo, le cavità oro-faringee, i denti, il palato, le labbra e così via. Tutto deve sapere cosa e come fare per condurre a quel risultato magico che la nostra Conoscenza possiede e ci comunica, o cerca di farlo, tramite intuizioni, tramite spunti e inspiegabili riuscite che la nostra coscienza può assimilare e portare ad affiorare. Cedere alle forze, che sono proprie dell'animale che è in noi, significa allontanarsi e tradire la nostra missione di poeti dell'universo.

giovedì, aprile 12, 2018

La capriola

L'esperienza mi insegna che nel canto tutti i movimenti musicali verso il basso rappresentano, piccoli o grandi, problemi più che altro di natura psicologica. Credo che in genere non siano problemi realmente naturali, spontanei, ma siano determinati soprattutto da studi o letture che abbiano inculcato paure, insicurezze e confusioni mentali. Trovo sempre più spesso allievi con evidenti problemi quando realizzano intervalli discendenti e quando scendono verso note basse. Bassi e baritoni che non emettono proprio i suoni che caratterizzerebbero la loro classe (e quindi spesso erronee classificazioni verso una classe superiore, quindi bassi che baritonaleggiano o baritoni che tenoreggiano), tenori sfocati e persino bloccati sulle prime note della loro estensione che, siamo d'accordo, appaiono non frequentemente nella letteratura operistica, ma non possono non esserci. Altro discorso vale per le donne; soprani che tentano con ogni genere di contorsione di scendere nelle note basse caparbiamente in falsetto, utilizzo sbracato del petto, specie nei mezzosoprani, ingolamenti e "impiccagioni" che fan male al cuore (oltre che alla gola). Le cause: 1) il tentativo di tenere i suoni "alti"; 2) la spinta; 3) la "capriola" ovvero il salto mortale all'indietro. Quest'ultimo, che fortunatamente non è frequente, l'ho anche visto rappresentato in un libro da un'insegnante che non cito. In pratica quando da una nota centro acuta si deve scendere verso il centro basso, si compie, a livello psicoogico, o di immagine mentale, un "ingoiamento", cioè si pensa di mandare il suono all'indietro e verso il basso. Purtroppo il risultato di una simile procedura è sempre nefasto, cioè la voce si afonizza, si strozza, si ingola. Le capriole è bene lasciarle agli atleti ginnici. Qui noi abbiamo bisogno di fluidità, scorrimento. Vediamo gli effetti degli altri difetti, di cui peraltro ci siamo già occupati in passato. La spinta è un male ormai molto radicato nel nostro tempo, perché si vuole a tutti costi buttare la voce per cantare in quanto si pensa che questo serve per essere sentiti. E invece è proprio il modo buono per frenare e creare resistenze e reazioni e farsi anche del male. La spinta è l'anti-sospiro, è un po' come non lasciare cadere un oggetto grazie alla forza di gravità, ma dargli un'accelerazione. Il fiato-suono esce grazie alla differenza pressoria che si instaura tra dentro e fuori di noi, oltre che per l'elasticità muscolare e polmonare. Le pressioni indotte volontariamente causano una forzata pressione del fiato-suono verso le pareti interne, irrigidendole, ma più gravemente, mettono le nostre "valvole naturali", laringe e lingua, nella condizione di stringersi. Quindi: maggior fatica, risultato inferiore alle aspettative da un punto di vista qualitativo, difetti e perdita di alcune caratteristiche tra cui le note basse. Man mano che si scende di tonalità, le vibrazioni diminuiscono, quindi lo spingere porta a problemi di intonazione (crescente) fino alla quasi impossibilità di emetterle per eccesso di pressione.
Sulla questione del "tenere i suoni alti" mi sono intrattenuto già diverse volte; è un "male" soprattutto delle metodologie della "maschera", che inducono gli allievi a "tirar su" i suoni o a spingerli verso le parti medio-alte della testa, soprattutto quando si scende o quando si canta nelle regioni gravi. E' una sciocchezza (ma tutta la questione della "maschera" così intesa lo è) e porta a vari difetti: la più frequente è l'erronea intonazione (tendenzialmente crescente), ma può anche causare perdita di sonorità, spoggio. Il modo corretto di emettere è, sempre con morbidezza, lasciar scorrere, non interrompere. Sentire, vivere con un certo piacere fisico del palato, della lingua, delle labbra, questo rivolo caldo ma fresco, puro ma frizzante, esiguo ma pieno e soprattutto destinato a correre e riempire lo spazio che ci circonda. Questo, senza che noi ce ne accorgiamo, incoscientemente, avviene quando parliamo tranquillamente e spesso anche quando cantiamo sovrappensiero. Si dirà: beh, ma in questo modo non si può cantare a teatro. Sì, se si sarà educato il fiato a propagare la voce. La differenza, alla fine, è "solo" questa. Ci va un tempo infinito per raggiungere questo risultato, ma non ci sarebbe altro. Ovvero, c'è di mezzo il mare.
Un consiglio, che spesso serve per evitare certi errori stereotipati: quando si scende verso il basso soprattutto quando ci sono suoni "stretti", come la "I" e la "é", è quello di non stringere la bocca, cioè sollevando la mandibola, ma facendo proprio l'opposto, cioè aprendo. Risulterà innaturale e difficilmente si riusciranno a pronunciare correttamente le vocali strette, ma non è molto importante all'inizio; ciò che importa è comprendere che in questo modo si permette un maggiore scorrimento del fiato-suono, senza schiacciare e si sarà anche indotti a spingere meno (perché spingere risulterà davvero assurdo!), Piano piano ci si accorgerà che anche con questa postura orale piuttosto strana, si potrà lo stesso pronunciare, ma a questo punto non sarà più necessario tenere aperto, ma si potrà tranquillamente pronunciare in modo corretto, naturale.

domenica, marzo 18, 2018

Perdere tempo?

In gran parte delle scuole di canto attuali, una delle prime preoccupazione riguarda l'appoggio. Esercizi respiratori e appoggio, o esercizi respiratori per l'appoggio. L'ipotesi dovrebbe essere che chi inizia a studiare canto non possiede un adeguato appoggio vocale, il che sarebbe la causa della voce poco sonora, diseguale, ecc. Alcuni ritengono che proprio non ci sia alcun appoggio, che quindi vada ricercato, poi sviluppato. Quest'ultima ipotesi non è corretta, se non in casi che sfiorano il patologico. E' invece più che probabile che l'appoggio vocale sul diaframma, a meno di requisiti particolarmente fortunati, sia piuttosto modesto e necessariamente vada sviluppato per ottenere quei requisiti di diffusione e valorizzazione necessari a una voce artistica. La questione riguarda i tempi. Da cosa sento raccontare, e anche per esperienza diretta, appare che per molti insegnanti il raggiungere un appoggio ragguardevole in breve tempo rappresenti una (se non "la") priorità massima. Questo è ad esempio l'obiettivo degli "affondisti", che sia con manovre fisiche che respiratorie, lavorano costantemente su uno sviluppo rapido dell'appoggio. Questo può anche portare alla manifestazione di risultati incoraggianti, perché la voce appare in poco tempo molto "lirica", ricca e sonora. Qual è però la storia che sta dietro tutto ciò? Che se io inizio lo studio del canto, avendo una voce di modesta portata, non particolarmente sonora, estesa e ricca di sonorità, avrò un appoggio altrettanto labile, limitato, che richiederà un tempo piuttosto lungo per svilupparsi e evolversi alla vocalità artistica che desideriamo. Questo tempo consentirà un'educazione che eleverà gradualmente la qualità fonica complessiva, senza incontrare ostacoli straordinari. Viceversa se il mio intento è quello di "bruciare i tempi", adottando tecniche muscolari, meccanicistiche, respiratorie, ecc. e cercando di ottenere risulti evidenti in poco tempo, otterrò una reazione dal mio corpo, violenta in proporzione alla tecnica utilizzata. Quale sarà la conseguenza? Che se da un lato sembrerà esserci un risultato apprezzabile in breve tempo, dovrò utilizzare altro tempo per cercare di superare le reazioni che avrò suscitato, adottando ulteriori tecniche, e non pervenendo poi mai a una soluzione definitiva, cioè dovendo per sempre tenere a bada un sistema complesso che non accetterà mai definitivamente di compiere un lavoro per il quale non è stato progettato (il canto artistico). Quindi, in definitiva, con un'educazione graduale e "soft", io avrò un progresso apparentemente contenuto, forse non molto soddisfacente in tempi brevi, ma che nei tempi "giusti" consentirà di poter cogliere un risultato di grande rilievo e senza controindicazioni, cioè una voce educata, flessibile, espressiva, gestibile nelle dinamiche, nei colori, nelle sfumature, nell'agilità, di ampia caratura, estesa, sonora in ogni spazio (che non significa potente e/o fortissima, che sono caratteristiche intrinseche, soggettive; sonora vuol dire che anche se piccola e non particolarmente ricca, può essere ascoltata ovunque, in quanto "corre", sfrutta l'acustica del luogo per espandersi e rendersi udibile). Le voci "rigide" cioè educate a tecniche di appoggio rapido, difficilmente possono sottostare a queste caratteristiche, e in più potranno risultare davvero ben udibili solo se potenti in natura. C'è poi l'eterno problema di come sviluppare appoggio. Per la maggior parte degli insegnanti di canto, esso va ricercato nel basso, in direzione discendente, quindi con varie manovre fisiche che coinvolgano la zona addominale, e/o con respirazioni che coinvolgano la zona diaframmatico-addominale e la fascia renale della schiena. Non sto nemmeno a prendere in considerazione quelle ipotesi che vorrebbero addirittura coinvolgere la zona puberale. Pura follia. In ogni modo bisogna innanzi tutto considerare che qualunque ipotesi che preveda una pressione o comunque un indirizzamento verso il basso è già di per sé controproducente e antivocale, perché si oppone all'uscita regolare e naturale del fiato; in secondo luogo andrà a esercitare pressioni e forzature che non potranno che provocare reazioni e resistenze. Quindi lo sviluppo dell'appoggio, fin quando sarà necessario (su questo tornerò) si otterrà con una normale attività vocale che miri a migliorare la qualità dell'emissione, correggendo la miriade di errori che si fanno nel parlato spontaneo, quindi passando a intonarlo, gradualmente. Non che in questo modo non si incontrino difficoltà e resistenze! Quando si cercherà di immettere maggiore intensità, e soprattutto quando si andrà a "aggredire" la zona acuta, per quanto si stia moderati nei volumi e graduali nell'ascesa, è quasi fatale che il corpo si ribelli e crei problemi e che il soggetto, per cercare di superare, inneschi ulteriori problemi. Ciò che, nel tempo necessario, risolve tutto, sarà la completa emissione esterna della voce. Quando la voce nasce fuori dalla bocca, si genera un "polo" sopra i denti superiori anteriori, che, in provocherà automaticamente di riflesso un appoggio sul diaframma, dando vita a un organismo strumentale, vocale, assolutamente perfetto e dove le relazioni "unificano" tutte le parti coinvolte facendo sì che funzioni nel modo più efficace possibile. Non si tratta, e non deve trattarsi nel modo più assoluto, di pressione, spinta, schiacciamento, forzatura "in avanti"; questo sarebbe controproducente e creerebbe comunque gravi difetti. Si tratta di avere pazienza, lezione dopo lezione è come una torta con una lentissima lievitazione, cioè una vocalità che forma gradualmente la sua base in relazione all'esigenza artistica desiderata.

domenica, febbraio 11, 2018

Il fiato integrante

Torniamo ancora una volta sulla questione dei cosiddetti registri e del nostro assunto secondo cui essi esistono (e resistono!) in condizioni di normale istintività fisica, ma spariscono in condizioni di evoluzione artistica, quindi nella condizione in cui si raggiunga un canto perfetto. Come ho spiegato in decine di post, i due noti atteggiamenti cordali dipendono dal fatto che il fiato non ha alcuna motivazione per alimentare una fonazione perfetta di due ottave e oltre, dal momento che non ne ha neanche una per dare energia a un parlato di alta qualità su una estensione modesta, quindi figuriamoci un po'...! Pertanto resta assodato che i registri sono legati strettamente a una qualità respiratoria non comune. Viceversa noi constatiamo che normalmente il parlato è ben tollerato, cioè un parlato scorrevole e privo di difetti rimarcati, non provoca particolari difficoltà anche se praticato per tempi medio-lunghi. Il motivo è che il parlato è nella natura umana, per cui assimilato alle nostre istintività. Da questo può discendere la deduzione che se noi ampliamo il parlato alle zone della gamma vocale esterne a quella dove pratichiamo abitualmente la parola, siamo in grado di migliorare anche la respirazione alimentante, perché instilliamo nell'istinto un'esigenza che potrà essere assecondata, appunto perché l'uomo ha assunto nel dna il parlato come caratteristica peculiare. Questa deduzione però non risolve più di tanto. Se noi infatti ci limitiamo a esercitare il parlato su una porzione di gamma vocale più ampia, a un certo punto, salendo, ci troveremmo comunque in difficoltà, e da un certo punto non riusciremo ad avanzare se non ricorrendo praticamente a una declamazione, quindi molto forte, accentata e prossima al grido. Quando dico questo mi riferisco al nostro comune parlare spontaneo, quotidiano. Se partiamo da questo, noi facciamo capo a una respirazione di per sé di modesta qualità, quella respirazione relativa a quel registro cosiddetto di petto, che sfrutta solo una parte, quella "molle", più flessibile, della corda, trascurando quella più tenace e impegnativa, che riserva a occasioni particolari e per cui non è in grado di sviluppare qualità (situazioni di difesa, pericolo, ecc.). Nella donna c'è la possibilità di esercitare anche un parlato sulla corda di falsetto, ed è cosa da fare assolutamente, ma resterebbe aperta la questione di come integrare le due modalità. La soluzione c'è, e volendo la si può trovare già tra le righe di quanto ho scritto.
Infatti ho sottolineato che la mossa poco utile sarebbe quella di esercitare un parlato comune, ma noi abbiamo la possibilità di passare a un parlato di miglior qualità, più espressivo, più corretto nella comprensibilità, nell'accentazione, nella varietà, nell'uso delle dinamiche, dei toni, ecc. Inoltre un parlato di modesta fattura è contraddistinto da un pulsazione continua, mancanza di legato e da un movimento frequente di punti di sonorità (alcune sillabe più avanzate, altre più interne), che in molti casi rende anche non facilissimo percepire tutto quanto viene detto. Anche questa è una limitazione respiratoria, e dunque il miglioramento di queste caratteristiche, che già di per sé richiede solitamente tempi non brevi, è in grado di sviluppare significativamente il livello della respirazione. Ma a questo punto dobbiamo anche inserire l'intonazione. Questa come sappiamo è la "manovra" che può rendere tutto più difficile, ma non lo è se chi si esercita lo fa con semplicità e cercando di non discostarsi dal parlato "qualificato", cioè mantenendo la sincerità e la pienezza di significato di quanto dice, ma esprimendolo anche con le giuste inflessioni, accenti, ecc., morbidezza e costanza, omogeneità, senza che questo - nel modo più assoluto - dia luogo a monotonia, meccanicità, ripetitività senza direzione. Queste due pratiche (cioè il parlato qualificato con e senza intonazione o melodia), esercitate indipendentemente e poi congiuntamente, provocano senza dubbio uno sviluppo della qualità del fiato indirizzato in esclusiva a questo ruolo, cioè "far suonare" le corde vocali con omogeneità e ampia flessibilità (con anche uno sviluppo quantitativo, molto più diluito nel tempo rispetto a tecniche respiratorie legate alla fisiologia, non prettamente relativizzate alla fonazione e al canto). Questa crescita andrà a coinvolgere senza la necessità di una piena consapevolezza, tutta la corda vocale, quindi annullando piano piano (ma neanche tanto) lo "scalino" esistente in natura tra le due posture cordali. Ecco dunque che già dopo poche lezioni, se non ci sono carenze molto evidenti, soprattutto nelle cantanti donne si riesce a percorrere oltre un'ottava, dalle note più basse e quello medio-alte, senza alcuna differenza di timbro, colore, giustezza della pronuncia, con quasi sempre una certa perplessità dell'allieva che non riesce più a comprendere bene se si trova in petto o falsetto. La sua coscienza dovrà trasformarsi (evolversi) nella percezione di una corda unica su tutta l'estensione dove la pronuncia e l'intonazione sono solo un flusso mentale, e non vi sono interventi volontari né muscolari né di altra matrice fisica.


sabato, febbraio 03, 2018

Un altro mestiere

Ciò di cui parlerò in questo post l'ho già scritto in passato, magari in una forma un po' diversa, comunque reputo importante ribadire alcuni concetti, soprattutto per coloro che ormai in più di 800 post si perdono e quindi rischiano di non trovare quelli fondamentali.
Parliamo di respirazione. Da un lato ci sono coloro che fanno della respirazione un culto, e dedicano molto tempo a fare esercizi con il fiato, imparando tecniche molto complesse. Dall'altro ci sono i fautori della respirazione "naturale". Ahimè, io non sto da nessuna delle due parti. Le tecniche respiratorie, specie se mutuate da altre attività, possono avere dei risvolti positivi, ma molte altre volte possono anche portare conseguenze negative. La domanda da porsi è: che "mestiere" fa il fiato durante un'attività? Quindi, mentre sto seduto a scrivere, come si comporta il fiato? Mentre cammino tranquillamente, passeggio? Quando faccio joggin? Quando salgo una scala di 5 piani? Quando parlo al cellulare e intanto cammino frettolosamente perché sono in ritardo? Quando canto dopo aver fatto le scale? quando canto piano, quando canto forte, quando canto nella prima ottava? nella seconda? piano nella prima, forte nella seconda? forte nella prima, piano nella seconda? Non è che adesso bisogna rispondere a tutte queste domande; si tratta di una provocazione, per dire che il fiato non fa sempre lo stesso "mestiere". Principalmente sappiamo che il compito del fiato è ossigenare il sangue e quindi smaltire l'anidride carbonica. Questa è la priorità assoluta che non può essere modificata; se un'altra attività rende instabile questa, il corpo reagisce. Già il solo fatto che un atto vocale dura diverse volte un atto respiratorio, già mette in allarme il nostro istinto. Però, come ho scritto in un post precedente, l'istinto non è del tutto ottuso, ha una piccola intelligenza ed elaborazione. Se io compio un esercizio vocale molte volte, subentra una tolleranza, cioè l'istinto si adatta, perché si accorge che non c'è un'intenzione negativa, ma c'è un'esigenza. Anche un sub trattiene a lungo il fiato, e questo si conquista con l'abitudine. Certo non devono intervenire fattori destabilizzanti, altrimenti si ricrea allarme e si rientra nella necessità respiratoria comune. Al secondo posto c'è la postura, ovvero l'ausilio che il fiato dà alla muscolatura del busto. Se devo compiere uno sforzo, se mi piego in avanti, se mi devo rialzare, ecc., il fiato è impegnato ad assistere la muscolatura in questa attività. Questo ci interessa molto, perché entrano fortemente in gioco il diaframma e la laringe. La laringe tende a chiudere il condotto (apnea) affinché all'interno dei polmoni si crei una pressione che aiuti il busto a sostenere le forze o eventualmente a riprendere la posizione eretta. Il diaframma, dalla parte opposta, sotto, tende a sollevarsi per contribuire a sua volta a creare la pressione necessaria. Questa è una condizione che NON deve ricrearsi nel canto, assolutamente antivocale. Siccome l'istinto non concepisce il canto, che appartiene alla nostra sfera creativa, spirituale, tenderà sempre a confondere il canto con uno sforzo, a meno che noi, con una disciplina straordinaria, persino difficile da concepire, riusciamo a inglobare questa nostra esigenza tra le "eccezioni" dell'istinto. Cioè possiamo insegnare all'istinto a non reagire in presenza del canto, in quanto non nocivo. In sostanza noi abbiamo due possibilità, la prima riguarda il 99% dei cantanti di oggi: far abituare l'istinto a una respirazione vocale grazie alla sua tolleranza. Il risultato sarà molto legato alla soggettività: più il cantante è "violento", grossolano, gonfiante la voce, ecc., più la tolleranza sarà bassa e quindi sarà costretto a cantare sempre con l'uso di molta forza muscolare, e non potrà uscire da un canto stentoreo, sempre forte, accentato. La durata è molto legata alle condizioni fisiche, alla robustezza, alla resistenza. Quando il cantante sarà più ricercato nelle sonorità, cercherà dinamiche varie, canto legato o di agilità, potrà contare su una tolleranza maggiore e facilmente anche su una durata maggiore. Poi c'è l'1% (che già mi pare troppo).
Noi, che ci riconosciamo in quell'1%, che "mestiere" vorremmo far fare alla respirazione? L'analogia più prossima è quella dell'archetto di un violino (o viola, violoncello o contrabbasso). Esso si muove con una certa fluidità e pressione per imprimere alle corde una determinata vibrazione e sonorità. Quindi è in rapporto con il tipo di corda (più sottile o più spessa), con l'altezza (corda più corta o più lunga), con la sonorità (minore o maggiore pressione). Detto questo, non vi aspettate che dica che bisogna imparare a muovere il fiato come il violinista muove l'arco. Mentre quella è una tecnica artificiale, che si impara con lo studio meccanico, nel fiato non c'è bisogno di questo, anzi, sarebbe (è) controproducente, perché il fiato in parte sa già, in parte impara da solo in base alla disciplina che si affronta, e l'eventuale intervento meccanico volontario non farà che ostacolare il progresso (o processo evolutivo). Si dirà: ma se il canto non è compreso nell'istinto, e il fiato è mosso dall'istinto, come è possibile che sappia cosa fare, e se lo sa, perché bisogna studiare? L'uomo ha una particolarità, rispetto alle altre forme animali, ha il dono della parola, la quale è compresa dall'istinto. Per un breve tratto, e solo per limitate condizioni espressive, l'istinto non reagisce alla parola, al parlato, quindi il fiato è in relazione a questa nostra capacità (ovvero sono in relazione fiato-laringe-forme articolatorie-amplificanti). Quando usciamo da quel tratto, il fiato non concepisce più le relazioni, perché escono dalle esigenze vitali e di relazione. La disciplina, quindi, ha lo scopo di ampliare la respirazione idonea al parlato a tutto il resto della gamma. Non basta. Come ho detto, oltre al breve tratto, ci sono anche limitate condizioni espressive, cioè quando si aumentano l'intensità, il volume, quando si intende omogeneizzare la qualità sonora e utilizzare tutte le possibilità musicali-espressive (legato, staccato, accelerando ritardando, diminuendo e crescendo, ecc.), ci troviamo di fronte a una richiesta che supera le possibilità della fisiologia animale comune, e si deve passare a una vera evoluzione respiratoria che ci porta a innescare quella possibile potenzialità che indichiamo come artistica. Quindi, riassumendo: la nostra mente possiede gli elementi per poter gestire in modo esemplare la respirazione legata alla parola e al canto, perché appartengono alle doti evolutive dell'uomo, ma sono nelle potenzialità, quindi partendo dal tratto in cui la voce già risponde convenientemente (parlato comune), noi possiamo progressivamente elevare questa gamma a una condizione superiore migliorando espressivamente il parlato stesso (che stimolerà la formazione di una respirazione adeguata), quindi ampliando sempre più la gamma fino a tutta l'estensione di ogni soggetto, e applicandola a tutte le necessità musicali. Il nostro istinto reagisce, anche con violenza, quando si tenta di commutare una caratteristica fisica, ovvero quando, nel nostro caso, si tenta di far fare al fiato un mestiere diverso, ma possiamo superare questo limite quando noi lo educhiamo a un "altro" mestiere, cioè senza commutare la sua essenza, per periodi di tempo limitati, possiamo alzare la sua energia alla massima potenza possibile, insita nel fiato stesso, cioè indipendentemente, o quasi, dalle forze fisiche e muscolari. Si tratta di "rendimento" ed "efficienza", ovvero la più elevata prestazione con la minima dispersione di energie. Provare per credere!

domenica, gennaio 28, 2018

Recitar

Non ce l'ho con Pavarotti, che resta sicuramente una delle voci più importanti del secondo Novecento. Tolta la voce, resta un cantante incompleto, però questo post è destinato a far ascoltare agli appassionati, direi soprattutto i più fedeli pavarottiani, cosa va e cosa no nelle esecuzioni di questo brano, in generale, e in quelle del cantore modenese. E' stato per caso che ho aperto questo video, giusto per far ascoltare a un giovanissimo questo brano, e mi sono imbattuto in questa esecuzione, certo non esaltante. Ora ritengo di dover condividere l'esperienza, in modo che se ne possa far tesoro.
"Recitaaaarrr"; già sulla prima parola, Pavarotti ci regala uno dei suoi errori più comuni, almeno nella seconda parte della carriera, cioè quell'insistere sulla consonante finale (R). Vocalmente parlando, in questa edizione non doveva essere in piena forma; si nota infatti la mandibola quasi sempre contratta che impedisce una piena fluidità vocale. Nella conclusione della frase "sei tu forse un uom", la O finale è forzata, spinta, e non perfettamente intonata. Poi sempre la consonante finale (M) ribadita. La A di "pagliaccio" è piuttosto slabbrata, ma molto peggio la O finale accentata. Poi gli errori si susseguono: "vesti la giubbAAA", "la facciAA", senza contare che tutte le A risultano parecchio aspre, esagerate. "e se..." con una E indietro, che non suona. Terrificante l' "ArlecchEEENNNN", che fa il paio con "ColombinAAAAAA"; più accettabile il finale di "pagliacciO" con colpo di glottide finale. Poi stessi problemi su "doloRR". Nella foga ci può stare anche quell' "infra-NN-tOOO"... forse. IIILL cooOOr, con storpiatura musicale rientra purtroppo in una prassi consolidata.
Una esecuzione a Budapest, in concerto, è un po' meglio, forse la minor foga data dalla mancanza della scena lo ha un po' moderato. Sulla stessa linea invece nel concerto a NY dell'87. Tra l'altro si nota in tutte le esecuzioni che prima di partire con "vesti la giubba", deve emettere una "M" per partire piano. Un classico. Trovo non malvagia una versione di Alagna del 2002 a Verona. Domingo è più corretto musicalmente, anche se perennemente ingolato.

venerdì, gennaio 19, 2018

Chi comanda?

Ogni desiderio è un ordine? Sì, possiamo dire che ogni nostro desiderio, o pulsione, si concretizza in un ordine che noi "installiamo" nella nostra psiche per mettere in moto le nostre forze, energie, affinché tutto ciò che necessita per realizzare quel desiderio si organizzi e si avvii. ... Uhmmm; forse qualcuno avanzerà dei dubbi circa queste espressioni. Ciò che ho scritto non è falso, non è sbagliato, però c'è qualcosa d'altro che si mette in mezzo, tra il dire il fare... già, il famoso "mare". Ma che cos'è in realtà questo mare? E' ciò che ho scritto nel titolo: chi comanda? Questa è la domanda. Noi pensiamo di comandare noi stessi, di imporre la nostra volontà... ma sappiamo che molto spesso le cose non vanno come vorremmo. Cosa ci frena, cosa o chi ha una forza tale da portarci verso strade diverse? La risposta, certo non rosea, è che non c'è un solo soggetto a mettersi in mezzo. E il più delle volte nemmeno due o tre! Prima di tutto ci sono determinati istinti (e non sto parlando solo del canto). L'istinto è un'intelligenza, è quasi un soggetto, che si muove con un pensiero, per quanto semplice, rozzo, in buona parte automatico e semi cieco, ma con potenti interazioni e piccole riflessioni. Poi c'è il potentissimo EGO, che non è uguale in tutti i soggetti, e dipende da moltissimi fattori, a cominciare dall'ambiente in cui siamo cresciuti, quindi in primis dai nostri genitori (non mi riferisco al DNA). L'ego da un lato ci sprona, da un altro ci rende miopi e sordi. Poi ci sono i nostri desideri inconsci e ci sono gli stimoli e i freni che ci bombardano dall'esterno. In sostanza è come se il nostro corpo e la nostra anima fossero tirati o spinti in direzioni diverse con diverse forze. E' più che normale che questa situazione, di cui noi ci rendiamo poco o nulla conto, ci porti a dubitare di poter portare a termine un compito, per quanto ci si metta d'impegno, oppure ci porta a credere di farcela, perché manca la coscienza dell'operare, oppure ci mostra fatalmente che non ce la facciamo, e quindi a desistere. Rendiamoci conto che sono situazioni dove il nostro vero IO (da non confondere con l'ego) è poco presente (quante volte sentiamo dire: "sii te stesso"; cioè lascia emergere il tuo vero io...). Se non ci mettiamo nelle condizioni di far tacere le voci e gli impulsi di queste forze disorientanti, la nostra personalità rischia di rimanere sempre sopita e angariata da queste pressioni. Anche chi arriva ad avere dei successi, anche rilevanti, può comunque trovarsi in queste situazioni (poveri loro se a una certa età dovessero rendersi conto di aver esaltato l'ego e non l'io. E' purtroppo ciò che è capitato ad alcuni personaggi dello spettacolo che con sgomento dell'opinione pubblica, dopo una vita di successi, improvvisamente sono caduti in depressioni abissali e talvolta hanno deciso di morire). L'accesso all'arte è impedito dalla presenza di tendenze discordanti, però il percorso artistico, fatto con una volontà di raggiungere risultati esemplari, può risultare la "medicina" per guarire. Quanto abbiamo descritto nelle righe precedenti, possiamo definirla una POLIVERSALITA'. Cioè le nostre energie (che possiamo definire anche desideri, aspirazioni, sogni, interessi...) si spezzano in una miriade di rivoli, ognuno dei quali procede per vie diverse. La via dell'arte ci porta all'UNIVERSALITA', cioè all'unico verso, l'unica direzione, che deve essere di carattere EVOLUTIVO. Poi, come s'è detto, questi rivoli hanno energie e portate diverse, ma anche se ci mettiamo molta volontà (o peggio ancora, molta forza), non è detto (affatto) che riusciamo a convogliare la maggior parte di essa verso il nostro obiettivo, e spesso non ci rendiamo minimamente conto del perché. Talvolta è una cecità reale, non riusciamo a individuare ciò che ci fa deviare dalla strada che intenderemmo percorrere, talaltra è una cecità di opportunismo o di paura; cioè non vogliamo vedere ciò che sposta i nostri interessi e le nostre capacità, o non le vogliamo vedere, spostiamo lo sguardo. Oppure ci lasciamo portare, aderiamo e in un certo senso ci arrendiamo alle forze che ci portano, quindi noi perdiamo controllo e autorità, ma questo ci porta a una apparente felicità (involuzione). E' una situazione che può essere invidiabile, e per lo più si può definire: ignoranza. Non ignoranza nel senso più comune del termine, cioè verso il sapere, ma ignoranza umana. L'ignorante "colto", dove alberga in alto grado il narcisismo, è un personaggio che purtroppo fa danni, perché il suo modo di fare, quel certo grado, comunque, di competenza (solitamente innata, poco conquistata), lo pongono in vista e conquista pubblico. Il rilievo apparente che lo contraddistingue ne fa un personaggio da copertina. E sotto il vestito? Beh, magari non niente, questo sarebbe sminuente; in molti casi ci sono qualità non trascurabili, però il problema serio è che è o può essere un trascinatore, quindi il suo verbo può convincere molti. Ma la mancanza di un'autentica coscienza artistica non può che portare verso falsi e erronei obiettivi, verso soluzioni arbitrarie, campate in arie, che possono essere molto ambite da chi non ha particolari doti e voglia di impegnarsi a fondo. Quando Rodolfo Celletti imperversava su diverse riviste musicali e in radio, nel giro di pochissimo tempo sorse una pletora di presunti critici che si mise ad imitare spudoratamente il suo modo di scrivere e di apostrofare i cantanti nello stesso modo, sciorinando tutto il vocabolario vociologico del noto giornalista, senza sapere un'acca di canto (proprio come lui che non sapeva niente). Tra costoro, diciannovenne, c'ero pure io, che mi salvai in corner perché mi resi conto in tempo che non potevo scrivere di canto senza nulla sapere e decisi così di studiare. Ma ancor oggi su riviste (molto meno lette, credo) e soprattutto in radio (ma anch'essa meno ascoltata) abbiamo alla ribalta degli evidenti ignoranti, che dissertano di canto con una scioltezza e una prosopopea sconcertante... ma chi li ferma? I nostri input nascosti sono sempre pronti a riorientarsi verso le voci degli imbonitori, e questo perché siamo deboli. Quando chiedo: "chi comanda?" faccio riferimento proprio alla nostra fragilità, a quella forza esteriore, apparente, che vogliamo smerciare, ma dietro cui non c'è una solidità, e soprattutto un desiderio di riordinare, compattare le proprie forze, la propria coscienza uni-versalmente. Credo che il m° Antonietti, così come (con esponente ancora maggiore) il m° Celibidache, casi pressoché unici, abbiano saputo veramente orientare le energie in una direzione, e saputo e potuto conquistare un premio di raro prestigio: la libertà.
La libertà si conquista, oltre che con la giusta esperienza, la giusta educazione, il giusto cammino, anche con il giusto atteggiamento. Quando chiedo "chi comanda?" non intendo un imperativo fisico e impositivo, ma in un certo senso il contrario, cioè lasciar agire le forze giuste. Ma come possono agire le forze giuste e come evitare o impedire che quelle inconsce e non autenticamente nostre prendano il sopravvento? Prima di tutto:... volendolo! Ai bambini si dice: "l'erba voglio cresce solo nel giardino del Re"; beh, non è poi così giusto. Oppure sì, se decidiamo che il giardino del Re è dentro di noi (e quindi noi siamo il Re). Se noi non vogliamo, con forza spirituale, di volontà, psichica, raggiungere un determinato obiettivo (non stiamo parlando di possesso di cose materiali, sia ben chiaro, o malevoli), sarà ben difficile poterlo anche solo avvicinare. Anche desideri moderati o modesti sono poco utili. "Sarebbe bello",... "mi piacerebbe", "dovrei",... "potrei", "bisognerebbe", ecc. ecc. Affermare, usando indicativo e imperativo! "ho raggiunto", "devo", "posso", "è", "faccio"... Il m° Antonietti diceva: "ricorda che volere è potere". Fidarci prima di tutto di noi stessi, nelle nostre potenzialità e delle nostre possibilità. Se siamo forti, se sappiamo guidare con determinazione la nostra coscienza, noi proietteremo la nostra esigenza e troveremo il giusto maestro per affermare e perseguire i nostri desideri.
Perché le persone dopo una certa età diventano "sagge"? Si dice sempre per l'esperienza, e questo è senz'altro vero, ma il dato essenziale è che almeno una parte delle energie disperdenti o disorientanti si placano e si riducono, per cui i nostri interessi più veri e solidi tornano a emergere e possiamo concretizzarli e approfondirli con maggiore facilità. Questo è consolante, forse, ma è chiaro che le conquiste importanti, utili a tutti, sono auspicabili in età giovanile, perché possono contare sul tempo a disposizione. Il tempo in cui viviamo è paurosamente disorientante, proprio per i giovani in particolare e spesso a causa delle generazioni di mezzo; confido, questa è la mia unica, ma sincera, visione ottimistica, che ci siano nei giovani semi di altruismo, di voglia di una rinascita umanistica e artistica serena. Un po' in ritardo: buon Natale...non tanto quello tradizionale, cristiano, ma Natale di rinnovamento e di "ritrovamento" di tutti gli uomini di buona volontà nella musica e nelle arti.