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martedì, marzo 20, 2012

Vuota il sacco!

Un argomento che non ho mai trattato direttamente è quello relativo al consumo dell'aria. Anche i trattatisti antichi hanno affrontato il problema dell'uscita dell'aria, e devo dire non sempre approfonditamente e in modo condivisibile. La considerazione nasce soprattutto con gli allievi alle prime armi, senza doti rilevanti. Se provano a fare un vocalizzo, rimangono molto rapidamente senz'aria, e talvolta anche cantando un brano. Questo ovviamente è il sintomo più semplice ed evidente dell'esistenza di un "programma" di funzionamento del nostro corpo che interviene quando si cerca di modificarlo. Siccome l'atto respiratorio è solitamente brevissimo, e siccome non ci sono giustificazioni fisiologiche per motivare una respirazione ampia come può essere una corsa o uno sforzo fisico di un certo impegno, l'istinto non vede la necessità di mantenere l'aria in corpo per un periodo molto superiore a quello dell'atto respiratorio fisiologico. Presa l'aria, i muscoli espiratori, massima il diaframma, provocano una pressione sui polmoni per far uscire l'aria in breve tempo. Questo si può configurare in due modi: non riuscendo a contenere la pressione, l'allievo emette il suono per qualche secondo dopodiché comincia a "mollare"; il suono perde consistenza e intensità e termina rapidamente; oppure, senza rendersene conto, modifica il suono stesso che si riempie d'aria, cioè non è più ben pronunciato ma diventa un suono associato a quello che definisco "l'effetto phon", che poi a qualcuno piace pure! In questo discorso ecco che inaspettatamente troviamo una prova scientifica del coinvolgimento dell'istinto nel nostro discorso. Scopriamo, infatti, che nel corso del parlato "normale" i muscoli inspiratori restano attivi anche durante un discorso. Con tutti i difetti e le differenze che possono esserci da soggetto a soggetto, questo segnale ci mostra senza ombra di dubbio che l'istinto accetta, tollera e permette il parlato senza particolari opposizioni mediante un sistema che regola in modo più costante la fuoriuscita dell'aria, senza che questa si consumi istantaneamente. Nel canto impegnato, invece, la pressione causata dal suono stesso comprime il diaframma; se il suono mantiene le proprie caratteristiche il diaframma continua a rimanere abbassato e noi saremo in grado di eseguire un suono omogeneo, ma siccome il canto è fatto di intervalli irregolari e di continui cambi di vocali e consonanti, la costanza del peso è difficile da mantenere e si va continuamente incontro a spoggio e "scalini" nell'emissione. Questo è il motivo principale per cui molti insegnanti evitano il parlato, cercando una "omogeneizzazione" delle vocali e dei colori (si pensi a chi dice che la A o la I non esistono!!!!), ed è il motivo per cui i brani si studiano prima con i vocalizzi e poi mettendo le parole, ad es. Ma da quanto si apprende anche scientificamente, ecco spiegato il motivo per cui facendo esercizi con il parlato prima normale e poi intonato, noi riusciamo a ottenere un risultato molto più interessante, cioè un consumo più costante, senza interventi volontari. Infatti sono stati molti (non so se ce ne siano ancora oggi) gli insegnanti che esortavano gli allievi a "trattenere" il fiato per non disperderlo subito, non avere durata e soprattutto perdere la qualità del suono (Garcia lo dice molto chiaramente). Questa imposizione è quanto meno assurda, pur nella sua logica, perché va contro l'idea di una rilassatezza complessiva, che non può ottenersi se si irrigidiscono i muscoli per trattenere l'aria, ma va anche contro all'ipotesi di un canto realmente piacevole. Non si può dire, nella pratica, come agissero e come superassero dunque questi che possiamo definire autentici difetti, ma ribadiamo invece ancora una volta che la strada del parlato, che è sempre stata nelle scuole di alta classe la via preferenziale, è quella che può risolvere gran parte dei problemi della vocalità. E chi non ci crede... si arrangi!

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